La cometa della poesia
dal numero di gennaio 1985
di Gian Luigi Beccaria
Sono pochi i documenti di cui disponiamo per la vita di Dino Campana; quando ci sono, sono spesso sospetti, e Sebastiano Vassalli è andato a cercarne: lunghe ricerche d’archivio pazienti, in carceri e manicomi anche. Ha lasciato poche tracce di sé il poète maudit non storicizzato in vita, e poco ha lasciato ai posteri: una raccolta d’eccezione, I canti orfici, scheggia superstite di prove e di una produzione più ampia, scomparsa (negli anni della guerra Dino affida a uno suo parente una grossa cassa di saponi, zeppa di manoscritti, che serviranno per accendere la stufa: tanto, era roba del “matto”!). Ma La notte della cometa di Vassalli non è un libro soltanto su vita e morte di un poeta, un’ennesima biografia, o peggio, un racconto che riduca il messaggio dei Canti alla biografia ed alla psicologia distorta ed allucinata dell’autore. Tra l’altro di Campana una biografìa già c’era, quella del medico Pariani (Firenze, Vallecchi, 1938) che interrogò il «demente» a più riprese e lasciò, in quel libro, ampia testimonianza dei lunghi colloqui.
Il nuovo libro di Vassalli è una sorpresa, e gli avremmo fatto torto ad aspettarci una narrazione che si dissipasse nel minuto e nell’insignificante del privato. È difficile, e pericoloso, darsi alle biografìe. In genere lo fanno i mediocri. Basti leggere quel che si scrive nell’ultimo fascicolo della rivista “Sigma”, Vendere le vite: la biografia letteraria. Ma Vassalli vediamo subito che, sin dalle prime battute seccamente annalisti-che del libro, intende scrivere una vita come operazione letteraria, oltre che, s’intende, in modo letterariamente valido, col suo stile secco, nervoso e pungente. Mette insieme i più piccoli indizi, i più polverosi frammenti rimasti, per ricostruire una tesa, appassionata odissea, e soprattutto la storia di una incomprensione letteraria. I frammenti raccolti li colloca nell’invenzione di una unità, che fa di questo libro un romanzo, ed un romanzo di grande tensione tragica e di imperterrito impegno ideologico e polemico. Non vuole aggiungere soltanto ulteriori documenti sul privato, alimentare, con una “chiacchiera”, curiosità morbose su uno scrittore strano, un “originale”, un personaggio estroso e disadattato, la leggenda Campana del girovago sempre in fuga, spesso in carcere, più volte, fino all’ultima, quando vi morì a quarantasei anni, in manicomio, e tante visite psichiatriche, e mendico per l’Italia e per il mondo, saltimbanco, ciarlatano, spalatore, “strillone” a Torino della “Gazzetta del popolo”, suonatore di piano nei ritrovi, nei bordelli, fuochista su un mercantile di ritorno dall’Argentina, vissuto tra “leggere” e zingari, lupanari e taverne, studente fallito in chimica, allievo dell’Accademia (da cui viene cacciato), uditore a Bologna delle lezioni del Mazzoni e lì scambiato, conciato com’era, per anarchico e arrestato… Una vita di fughe, di vagabondaggi, colla sua valigia di vimini di forma ovale che lo accompagna dovunque, una cesta dove teneva qualche vestito, libri, molte copie dei Canti orfici che vendeva personalmente (a quella acquistata da Marinetti strappò qualche pagina, tanto non poteva capire!), e una sciarpa nera, anche se era estate. Grandi fughe, e ritorni al natio borgo selvaggio (Marradi, nei pressi di Faenza), dove era deriso come il matto del paese. Materiali a iosa per una biografìa romanzata.
Ma Vassalli è scrittore che parla di uno scrittore, e in quello biografa se stesso, il nostro tempo, e l’idea di poesia. Un’idea di poesia, certo, la si può cavare con maggiore intensità e pertinenza dai Canti orfici piuttosto che dalla vita di chi li scrisse, perché l’intera conoscenza e di un’opera letteraria e di una idea di poesia va ricavata dai testi soltanto, che costituiscono un sistema chiuso. Io la penso così, non ho mai amato le biografie, le ho sempre trovate noiose, spesso inutili. Invece, questa volta che ne ho letto una d’un fiato, quella di Vassalli, mi ricredo. E ciò mi succede perché Vassalli è scrittore, è poeta. Non è uno che abbia fiducia nei fatti e meno nelle parole. S’è proposto di fare un romanzo in cui il margine di arbitrarietà fosse limitato all’estremo, dai fatti, dai documenti, dalle ricerche d’archivio. E questi fatti ha reso attivi, eloquenti, appassionati, scrivendo di un poeta grande nel bel mezzo di un momento, il nostro, così povero di poeti e di scrittori giovani, nuovi, e guidato, popolato, manipolato da mediocri, parvenus (Campana: «Viene alle lettere una generazione di ladruncoli». «Il popolo d’Italia non canta più». «Oh parvenu! Tu sei la rovina»). Vassalli vuol riparare ad una ingiustizia, tesse la storia amara di una incomprensione. Prezzolini aveva detto che Dino Campana era «un sottoprodotto del dannunzianesimo», Papini lo definiva «un poeta di second’ordine», «Lacerba» e «La Voce» muovono con accanimento una guerra al «pazzo» che aveva sfidato i rituali, le gerarchie della società letteraria, quasi a volerne annientare anche dopo morte la fama e cancellarne la memoria. Campana è il fuorilegge, che non sapeva adattarsi all’ambiente, spregiatore delle regole del gioco. I Canti orfici li scrive in pochi mesi, e venuto l’inverno va a Firenze a trovare Papini col manoscritto pronto. Papini e Soffici prendono tempo. Campana vuole essere stampato, per provare a se stesso che esiste, per scrivere ha bisogno di essere stampato («Non sono ambizioso, ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata»). Era arrivato a Firenze senza un centesimo, a piedi: unico bagaglio, un sacchetto di tela iuta in cui tiene il manoscritto e pochi effetti personali. Cammina scalzo per risparmiare le scarpe che porta unite per i lacci a tracolla. Dorme all’asilo notturno. Guadagna qualcosa facendo piccoli servizi da fattorino e da facchino. Cerca di offrirsi ai turisti per spiegargli Firenze (conosce varie lingue) ma viene rifiutato a causa dell’aspetto. Si arrangia, digiuna. Per tutto il libro Vassalli disegna il supplizio di tutta una vita. Il supplizio è coronato dall’incontro con Sibilla Aleramo che, all’epoca dell’incontro con Dino, aveva già amato tutta la letteratura italiana vivente, «buona parte delle arti figurative, qualche rappresentante del teatro e un numero imprecisato di aviatori, cavallerizzi, rivoluzionari e banchieri».
Il gusto sta oggi virando. Non lo avvertiamo certo nei libri di successo, tutti o quasi di una mediocrità impressionante. Si salva Eco, che ha piazzato al momento giusto il suo romanzo ben fatto, ben scritto, ben costruito. Sebastiano Vassalli viene dal Gruppo ’63, ma è andato da ultimo maturando un’idea diversa di letteratura, un’idea ardua e aristocratica di poesia, che lo ha indotto da ultimo a rifiutare l’avanguardia, lo sperimentalismo e, come un peso, l’appartenenza ad una qualsiasi società letteraria, ritirandosi tra le risaie della pianura vercellese a «coltivare il proprio giardino». In un pungente, amaro e piacevolissimo insieme pamphlet, Arkadia (il titolo è emblematico) ha espresso sui contemporanei giudizi netti ed impietosi. Non crede più nei «grandi» poeti. Crede, come Campana, che «essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista ecco ciò che importa». Il grande poeta è un uomo che vive tutt’intero nel suo presente e lì finisce. Non ha contemporanei sparpagliati in tutte le epoche, non ha dialogo con chi è già passato o con chi deve nascere. «È un uomo — aggiunge Vassalli — in fondo normale; uno che diventa grande poeta come un altro diventa direttore della Cassa di Risparmio, con un poco di applicazione, un poco di talento ed un poco di circostanze favorevoli. Di questi grandi poeti, impiegati solleciti del loro Tempo, del loro Principe, del loro Editore, sono piene le epoche ed i libri». Il poeta vero invece appare a distanza di anni. La cometa di Halley apparve nel 1910; gli astronomi dicono che riapparirà, dopo lunga eclisse, nel 1986. Vassalli chiude il libro tracciando l’«elogio» di questo ragazzo ancora in fasce, non particolarmente grande, non famoso, non tenuto in seria considerazione, e se si aspetta, questo «primitivo» che attraverserà il mondo senza essere tenuto in grande considerazione, anzi sarà fatto a pezzi dai suoi contemporanei, come Campana. Sarà fuori del tempo e dei suoi traffici. Sarà il Poeta, come lo è stato Leopardi e pochi altri. Dopo di lui abbiamo avuto soltanto poeti-filosofi o poeti-vati. Sarà il puro artista, come Campana in rotta coi contemporanei, non fortunato cogli editori. A conoscere Vassalli, romantico ed appassionato, l’incontro con Campana era inevitabile. «Cercavo un personaggio con certi particolari connotati. Il caso me l’ha fatto trovare nella realtà storica e da lì l’ho tirato fuori: con accanimento, con scrupolo, con spirito di verità. (Per quanto tutto nel mondo sia passibile di ulteriori sviluppi, non credo che sul poeta Campana ci sia più molto da scoprire). Ma se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest’uomo meraviglioso e ‘mostruoso’ , ne sono assolutamente certo. L’avrei inventato così». Così finisce il libro di Vassalli, poeta che parla di un poeta, e in Campana biografa parte di se stesso, in pane questo schifo di mondo in cui sente di esser capitato, una notte senza alti scrittori, senza più opere distese in un «tempo grande» e innalzantesi in un «grande stile». Ha scritto la biografia di un inesistente, in un discorso sul presente e sul futuro, non sul passato. Non è, Vassalli, biografo di una «vita», ma di una speranza tesa, e di un gusto che, mi auguro anch’io, sta virando, in caccia di una integrità e di una forza individuale di scrittore, esemplare oggi scomparso, dissolto.