di Stefano Zamagni
Responsabilità significa, letteralmente, capacità di risposta e questo ci indica che siamo di fronte a una nozione intrinsecamente relazionale, perché postula in modo costitutivo la dimensione della risposta. L’atto del rispondere, infatti, rinvia necessariamente alla dualità fra chi dà e chi riceve risposta e al loro rapporto. Ma responsabilità, dal latino res-pondus, significa anche portare il peso delle cose, delle scelte effettuate. Non solamente si risponde “a”, ma anche “di”. Se “rispondere a” significa riconoscere il legame che gli altri ci costituiscono e ci fanno esistere almeno quanto la nostra individualità, “rispondere di” vuol dire invece portare nel rapporto quella unicità e differenza che ci fa diversi dagli altri. (cfr. Stefano Zamagni, Responsabili. Come civilizzazione il mercato, Il Mulino, Bologna 2019).
L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione di responsabilità, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e, in quanto tale, di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano. Nella concezione tradizionale, dunque, la responsabilità riposa tutta sul legame tra un soggetto e la sua azione. L’importante è stabilire quali azioni mi appartengono e perciò di quali azioni devo rispondere. Questa, ancora prevalente, concezione lascia però in ombra il cosa significhi essere responsabili. Rispondere, come spesso si sente dire, che significa dare conto del proprio agire sarebbe mera tautologia. È questa una situazione, a dir poco, paradossale: ci si appella sempre più alla responsabilità senza sapere quale ne sia il contenuto, la sua ragion d’essere.
Da qualche tempo a questa parte, però, ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Ciò sta avvenendo sull’onda della presa d’atto che la responsabilità ha sempre più a che fare con il tempo. La rapidità del cambiamento costringe a prendere decisioni di cui non siamo mai in grado di calcolare tutte le conseguenze, in tempo reale. Da una parte, la responsabilità richiede, oggi, di porsi il problema dei vincoli cui le decisioni che assumiamo saranno esposte nel tempo per continuare a essere efficaci. Dall’altra, occorre sviluppare capacità che facilitino l’uso delle risorse disponibili. La capacità di risposta non può essere perciò solo riferita all’immediatezza delle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurano una qualche continuità della risposta stessa. Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice accountability. È rimasta giustamente celebre l’affermazione di Martin Luther King secondo cui “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”.
Un aspetto inquietante – ma non è il solo – della globalizzazione e delle tecnologie del digitale è l’anonimato dei suoi protagonisti e gli effetti a lunga gittata delle loro operazioni. La decisione presa in un certo luogo o in una certa piazza d’affari tende ad avere ripercussioni molto lontane. Le cause sono molto distanti dai loro effetti. Non solo, ma troppo spesso questi effetti sono generati da una pluralità di micro-azioni che si sommano in modo tale che non è possibile imputare al singolo partecipante l’azione comune, la totalità degli effetti prodotti. È questo ciò che accade nei casi di “tirannia delle piccole decisioni”. La tirannia si verifica tutte le volte in cui un numero di decisioni, singolarmente razionali e giuridicamente lecite, di modesta dimensione e di corto respiro, cumulativamente prese risultano in un esito sub-ottimale e moralmente inaccettabile perché reca a “innocenti” conseguenze cattive.
Va da sé che in casi del genere la mano invisibile del mercato finisce con il funzionare in modo perverso, perché la serie di decisioni individualmente razionali cambia in senso negativo il contesto in cui verranno operate le scelte successive, fino al punto in cui le alternative che si sarebbero desiderate risultano irreversibilmente distrutte. In queste condizioni, il modello tradizionale individualistico della responsabilità fondato sulla colpa non è più applicabile, tanto che c’è chi vorrebbe farne a meno del tutto. Ma ciò sarebbe un potente non sequitur logico, per la semplice ragione che anche se gli attori reali dei macro-processi sono spesso sconosciuti o invisibili, ciò non implica che non esistano. Proprio perché ci ha resi più interdipendenti, meglio informati, più capaci di realizzare forme di mutuo aiuto, la globalizzazione esige forme nuove e più robuste di responsabilità da parte degli attori. La responsabilità tende a trasformarsi in corresponsabilità, che non va intesa come sommatoria delle responsabilità individuali, ma richiede che gli agenti economici siano considerati come membri di una comunità di cooperazione di estensione planetaria.
Siamo oggi di fronte a uno dei tanti paradossi della globalizzazione, che mentre espande l’area della responsabilità personale, al tempo stesso facilita la mutua deresponsabilizzazione. Ciò avviene perché la globalizzazione ha reso le catene causali assai più lunghe di prima e così i partecipanti al mercato globale si rifiutano di assumersi una responsabilità personale per i risultati collettivi, scegliendo di nascondersi dietro l’anonimato di gruppo. È certamente il fenomeno della quarta rivoluzione industriale a costituire, in questo nostro tempo, una delle più urgenti occasioni per ripensare e mettere all’opera la versione forte del il principio di responsabilità. È noto che la rapida diffusione delle così dette tecnologie convergenti – quelle risultanti dalla combinazione sinergica delle Nanotecnologie, Biotecnologie, Information Technologies, Cognitive sciences; in acronimo NBIC – sta radicalmente modificando non solamente il modo di produzione ereditato dalla società industriale, ma anche le relazioni sociali e la stessa matrice culturale della società. Non sappiamo ancora come le nuove tecnologie del digitale e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo del prossimo futuro. Sappiamo però che è in atto una seconda “grande trasformazione” di tipo polanyiano con conseguenze di vasta portata sul senso stesso del lavoro umano, oltre che sulla distruzione e creazione di posti di lavoro; sulla separazione tra mercato e democrazia, quale si è andata consumando nel corso dell’ultimo trentennio sull’onda dell’esaltazione dell’idea che fosse possibile espandere l’area del mercato prescindendo dal contemporaneo rafforzamento del principio democratico; sull’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) ai fini del successo del progetto transumanista – termine coniato alcuni decenni fa da Julien Huxley. (La prima grande trasformazione è quella stupendamente narrata da Karl Polanyi, nel suo La grande trasformazione del 1944, riferita alle prime due rivoluzioni industriali di fine Settecento e fine Ottocento, rispettivamente).
La promessa di un potenziamento, sia dell’uomo sia della società, che viene dalle tecnologie convergenti del gruppo NBIC dà conto della straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di ambiti, da quello etico a quello scientifico, da quello economico a quello politico. Quanto è in gioco non è solo il potenziamento delle abilità cognitive dell’uomo o il miglioramento dei modi di controllo delle informazioni e del loro uso a fini produttivi, ma anche l’artificializzazione dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione della macchina. Si può così comprendere perché, di fronte a scenari del genere, la nozione di responsabilità come imputabilità non sia sufficiente a guidare l’azione dei decisori, pubblici e privati che siano. Piuttosto, occorre applicarsi per tradurre in pratica la nozione di responsabilità come prendersi cura, proprio come ebbe a scrivere don Lorenzo Milani all’ingresso della sua Scuola di Barbiana: “I care”.
Prendere atto che il capitalismo rischia oggi la paralisi o, peggio, il collasso, perché è diventato più capitalistico di quanto gli sia utile, è il primo passo per avviare un progetto credibile di trasformazione del modello attuale di ordine sociale.