Da teenager asociale a leader generazionale
di Anna Meldolesi
Questo libro non è un manifesto del pensiero di Greta. Non è nemmeno la cronaca della sorprendente ascesa della sedicenne svedese che ha innescato il movimento internazionale Fridays For Future. È piuttosto la biografia collettiva della famiglia molto speciale in cui Greta è cresciuta, scritta quando questa ragazzina dalle lunghe trecce non era ancora un’icona della difesa dell’ambiente ma si accingeva, imprevedibilmente, a diventarlo. Se fossimo al cinema, questo libro sarebbe un prequel. Nel momento in cui la madre Malena Ernman ha dato alle stampe il testo in Svezia, con il titolo Scene dal cuore, Greta non aveva ancora iniziato i suoi scioperi per il clima, ma aveva già preparato il cartello che si sarebbe portata dietro giorno dopo giorno, e poi settimana dopo settimana, per protestare, in solitudine, davanti al Parlamento di Stoccolma. Quando però il libro è stato tradotto e pubblicato in tutto il mondo, in Italia da Mondadori con il titolo La nostra casa è in fiamme, la giovane Thunberg era già diventata il volto del nuovo ambientalismo. Incoronata donna dell’anno nel suo paese, poi candidata al Nobel per la pace, ben presto messa in copertina da “Time” come leader della prossima generazione, quindi premiata come Ambasciatore della coscienza da Amnesty International e molto altro ancora. Le fiamme sono una metafora del surriscaldamento globale che minaccia la nostra dimora cosmica, ma anche il simbolo della crisi attraversata dalla famiglia Ernman-Thunberg durante il tormentato percorso di crescita di Greta, alle prese con i talenti e le sfide del suo essere Asperger. “Persone esaurite su un pianeta esaurito”, recita il titolo della seconda parte del libro. A tratti commovente e spesso convincente, per l’onestà dei molti scorci di vita vissuta e narrata, questo memoir traccia un percorso di ridefinizione valoriale, che sfuma il confine tra impegno sociale e ambientale. Denuncia, senza pretese accademiche, la gravità dell’emergenza climatica e l’urgenza di politiche radicali. Apre una finestra sulla comprensione della neurodiversità che, nelle giuste condizioni, può scavalcare la categoria della disabilità e diventare un super-potere, perché consente di vedere ciò che gli altri trascurano e di fare ciò che nessuno oserebbe. La macchina narrativa non è perfetta, ma il testo è utilissimo per capire cosa c’è dietro al fenomeno Greta. Ovvero come una teenager asociale sia diventata la voce più ascoltata del mondo in materia di climate change. Nessun complotto, nessuna manipolazione, nessun oscuro disegno, come insinuano gli scettici dei cambiamenti climatici: il successo di Greta è una bellissima storia di una singolarità che si avvera. Consente di ragionare a posteriori su quanto i fenomeni sociali siano imponderabili e quanto misteriosa sia quella qualità che chiamiamo leadership e che Greta certamente possiede, a dispetto degli stereotipi.
La Thunberg che emerge da queste pagine non è ancora l’oratrice implacabile che ha strigliato i potenti della terra ispirando un’intera generazione. Chi è interessato ai suoi speech, semplici eppure efficaci perché vanno diritti al bersaglio, deve leggere No One Is Too Small to Make a Difference, ovvero Nessuno è troppo piccolo per fare la differenza, pubblicato da Penguin. La Greta che emerge da La nostra casa è in fiamme è ancora una ragazzina fuori dagli standard e con un futuro più che incerto. La figlia faticosissima di Malena e Svante, che per seguire lei e i suoi ideali hanno rinunciato alla carriera di cantante lirica e attore. L’ingombrante sorella di Beata, la piccola di famiglia, anch’essa neurodiversa. Eppure Greta è già tutta qui dentro, in potenza. In queste scene di famiglia, con il suo cervello ribelle alle convenzioni, le sue battute lapidarie e quella determinazione incrollabile che diventerà la cifra più riconoscibile del suo carisma. Per decenni climatologi ed ecologisti hanno cercato, invano, di risvegliare le coscienze. I rapporti dell’agenzia Onu per i cambiamenti climatici (Ipcc) si sono fatti via via più allarmanti. Al cinema sono arrivati film catastrofisti come L’alba del giorno dopo, di Roland Emmerich (2004). Al Gore ha vinto un Nobel e un Oscar grazie al suo documentario Una scomoda verità (2006). Barack Obama ha visitato i ghiacciai dell’Alaska per accendere i riflettori sul loro scioglimento. Leonardo DiCaprio ci ha regalato il bel documentario Punto di non ritorno (2016) e ha parlato di clima la notte in cui Hollywood gli ha consegnato il premio più ambito. Ma non sembravano esistere testimonial capaci di parlare a un pubblico distratto. Ancora nel settembre del 2018, più o meno negli stessi giorni in cui una sconosciuta ragazzina svedese iniziava a manifestare per strada da sola, il bilancio degli psicologi sociali era sconsolante. L’inerzia, la disattenzione, l’ignoranza, la sottovalutazione regnavano incontrastate. “Sbadigliamo davanti all’apocalisse”, ha titolato la rivista britannica “The Psychologist” cercando di rispondere a una domanda cruciale. Come può l’umanità restare indifferente quando a essere minacciate sono la natura, la salute globale, la sicurezza alimentare di centinaia di milioni di persone, l’economia e persino la stabilità politica di molte aree geografiche? La crisi economica ha ostacolato per anni la risalita dei cambiamenti climatici nella lista delle priorità, lasciando in cima altre emergenze reali o presunte. Ma in gioco sono entrati anche meccanismi psicologici subdoli. Il climate change è un pericolo che i nostri sistemi percettivo, cognitivo ed emotivo faticano ad afferrare perché è invisibile, graduale, distribuito e a lungo termine. In effetti il nostro cervello si è evoluto per gestire problemi che, all’opposto, sono locali, concreti e imminenti. Gli scienziati parlano correttamente di scenari e margini di errore, ma il linguaggio probabilistico spegne le emozioni e favorisce una distorsione della percezione del rischio. D’altra parte, anche se le persone reagiscono emotivamente, tendono a farlo in modo difensivo e controproducente. Almeno una parte dell’apatia potrebbe essere riconducibile a un processo di rimozione rispetto a un problema verso cui ci sentiamo impotenti.
Se si pensa che i cambiamenti climatici colpiranno più duramente chi vive in posti remoti, in un futuro lontano, allora scatta fatalmente l’effetto lontananza che ci rende indifferenti. Greta e la sua generazione, però, ci hanno guardato negli occhi dicendo: le vittime siamo noi, adesso, e i colpevoli sono facili da individuare, a cominciare dai governi che promettono senza poi mantenere. Questo è un punto fondamentale, perché se un fenomeno viene percepito come un effetto collaterale indesiderato di dinamiche economiche e sociali senza nome e senza volto, si indebolisce anche la spinta morale a reagire per rimediare. Cambiare rapidamente la sensibilità comune è difficile ma non impossibile. I movimenti sociali attraversano periodi di svolta e le istanze che appaiono minoritarie, a un certo punto, possono conquistare la maggioranza delle persone. Basta pensare ai diritti della comunità lgbt+, che hanno trovato ampio sostegno solo in tempi recenti. O a come il movimento #MeToo stia modificando l’accettabilità sociale delle molestie sessuali. I primi effetti di Fridays For Future si vedono già: alle ultime elezioni europee i verdi hanno ottenuto percentuali notevoli, una dozzina di paesi (dalla Francia al Canada) e decine di amministrazioni locali hanno dichiarato ufficialmente che esiste un’emergenza climatica, la compagnia aerea Klm ha girato uno spot in cui invita le persone a prendere il treno per inquinare di meno, sui social si è diffuso lo slogan #stayontheground (restiamo a terra), nel linguaggio giornalistico l’espressione “crisi climatica” sta prendendo il posto del più neutro “cambiamento climatico”. Il problema delle emissioni di gas serra è ancora lì, spaventosamente grosso, ma abbiamo smesso di sbadigliare, forse anche perché nel frattempo gli eventi meteo estremi sono diventati più frequenti e visibili.
Evidentemente i tempi erano maturi, e ci voleva una persona credibile e ostinata, estranea allo star system come pure alla vecchia politica, per attirare la nostra attenzione. Secondo lo psicologo di Cambridge Cameron Brick a funzionare è il contrasto tra giovane età e consapevolezza, tra competenza e purezza, un po’ come era accaduto con la pakistana Malala, paladina del diritto allo studio delle ragazze. Quando l’ho intervistato per la rivista “Mente”, mi ha detto che probabilmente vediamo in loro l’eco di un’infanzia interrotta, un’opportunità rubata. Una ricerca pubblicata a maggio su “Nature Climate Change” ha dimostrato che se qualcuno può far scattare la molla dell’interesse per la crisi climatica in un adulto disimpegnato è suo figlio, o meglio ancora sua figlia. È bene dunque che l’editoria abbia pensato anche ai lettori e alle lettrici più giovani, con Greta. La ragazza che sta cambiando il mondo della giornalista Viviana Mazza (Mondadori). Una piacevole minibiografia, seguita da un’appendice divulgativa, che può accompagnare la crescita di una coscienza ambientale sin dalle scuole elementari. Ma è probabile che il capitolo più avvincente della storia di Greta debba ancora essere scritto. Potrebbero essere le cronache del viaggio che compirà per partecipare al summit dell’Onu a New York il 23 settembre e alla Conferenza delle Parti sul clima prevista in Cile a dicembre. Dovrà farlo via mare e via terra, per minimizzare le emissioni. Chissà quanto ci impiegherà e quali luoghi visiterà lungo il tragitto, sarebbe un peccato se non ne nascesse un libro. Intanto potete essere certi di ritrovarla ogni venerdì mattina, nella sua città o in trasferta, puntuale col suo cartello e la stessa espressione di sempre. E forse accadrà anche a voi quello che è successo a me dopo il primo sciopero globale per il clima. Mi sono sorpresa da sola sentendo la mia voce dire a un barista: “Ma no, non inquiniamo, niente cannuccia nella mia bibita”.
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A. Meldolesi è giornalista scientifica