Le due zittelle di Tommaso Landolfi | Archivio

La scimmia empia

di Rocco Carbone

dal numero di marzo 1993

TOMMASO LANDOLFI
LE DUE ZITTELLE
a cura di Idolina Landolfi, Adelphi, Milano 1992, pp. 114
Le due zittelle, scritto nel ’43 e apparso per la prima volta in volume tre anni più tardi, è una delle punte più alte dell’opera di Tommaso Landolfi, e per una nutrita serie di motivi. Lo stesso autore, del resto, ebbe modo di definirlo, qualche anno più tardi, come il suo “miglior racconto”, accostandolo, e non a caso, all’esordio d’eccezione rappresentato dal Dialogo dei massimi sistemi, del 1937. Tra le due opere, tuttavia, vi è un rapporto particolare. Quanto la prima proponeva al lettore, con un gesto proditorio, lo scintillante spettacolo di un universo letterario ricco di sorprese e capace di numerosi exploits stilistici, tanto la seconda appare frutto di una meditata scelta di genere, dove i vari temi e le numerose ossessioni letterarie già cari all’autore trovano un puntuale compimento, e una forma narrativa giunta alla sua piena maturazione. Leggere Landolfi vuol dire penetrare in un mondo dove tutto può accadere. Essendo la sorpresa uno degli aspetti  caratteristici della sua scrittura, è difficile riconoscere in essa elementi stabili e rassicuranti, che non mutino di segno quando uno meno se lo aspetta, e non si trasformino continuamente, in un gioco di disorientamento e di alterità, così che alla fine ciò che di stabile rimane è il continuo ammiccare del narratore a un altro significato e a un’altra verità della storia che, con tanta dovizia di mezzi e con tanto sfarzo retorico, ci ha appena raccontato.
Le due zittelle sembrano presentarsi con la forma di un solido racconto ottocentesco, di quei racconti in cui l’autore ha la premura di descrivere nei minimi dettagli i personaggi e i luoghi che animeranno la storia. Il lettore, fin dalla prima pagina, viene preso per mano dal narratore, che dialoga con lui ammiccando, rassicurandolo, e intanto cominciando a gettare, qua e là, con gesto noncurante, indizi e spie luminose che, a un certo punto, si riveleranno nella loro vera natura. Questa, in breve, la vicenda. Due “zittelle” vivono con la vecchia madre, “in uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante, al primo piano d’una casa borghese”. I primi due capitoli del racconto sono dedicati per intero alla descrizione della monotona vita che si svolge dentro le mura di un grigio appartamento, dove, tuttavia, la più pacificata normalità molto facilmente si trasfigura in qualcosa d’altro, e dove a poco a poco presenze consuete possono rivelarsi mostruose: è il caso, appunto, della vecchia madre, costretta all’immobilità e al mutismo su una poltrona, nell’attesa di una morte che non tarderà ad arrivare. Tale preambolo prepara l’avvento del personaggio-chiave del racconto, la “scimia” Tombo – regalo di un fratello delle due zittelle in seguito scomparso -, che vive dentro una grande gabbia, e svolge la funzione del “maschio di casa”, viziato e turbolento a causa della cattività. Un giorno, da un convento vicino, cominciano ad arrivare lamentele: a detta delle monache, Tombo, nottetempo, dopo aver aperto la gabbia ed essersi liberato della catenella che lo vincola ad essa, si introdurrebbe nella cappella del mona-stero, facendo scempio delle ostie consacrate e, insomma, commettendo atti sacrileghi. Si giunge in breve a una decisione: Nena, una delle due zittelle, si nasconderà assieme a una monaca in un angolo della cappella, e scoprirà la colpevolezza della sua amata bestiola. Segue un “processo” in piena regola, con l’aiuto di un anziano prelato e di un giovane sacerdote, che animeranno un denso dibattito sulla colpevolezza o innocenza della bestia. Dopo il processo, la condanna a morte: le due sorelle uccideranno Tombo con un lungo spillone, poi lo metteranno dentro una cassetta “foderata di zinco come quelle dei cristiani”, e lo seppelliranno in un angolo del giardino.
Landolfi è un maestro della dissimulazione. Ne Le due zittelle, come in molte altre sue opere, la storia raccontata viene interrotta da continue digressioni, pause, intersizi retorici in cui il narratore scava la superficie del racconto, dialoga ironicamente con il lettore e, attraverso un discorso narrativo che vuole disorientare per la ricchezza del suo tessuto verbale (quel “crudo, minerale splendore” di cui ebbe a scrivere un lettore d’eccezione come Vittorio Sereni) introduce nuovi significati, e fa capire, con una sicurezza dei propri mezzi al limite della prepotenza, che non nella superficie, ma proprio in quegli intersizi, va trovato il senso della narrazione, e, insomma, la “morale” della favola. Tra i segnali di tale genere di cui il narratore ha disseminato il racconto, la presenza preponderante della “scimia” Tombo è forse il più importante. Sappiamo quanti e quali esiti abbia avuto, nella narrativa landolfiana, la presenza animale, blatte, ragni, topi e altri esseri che formano un vero e proprio bestiario, ricco di significati. È la scimmia, nel racconto che stiamo leggendo, a permettere al narratore quel “salto” dalla superficie alla profondità a cui abbiamo accennato. “La scimia delle due zittelle compensazioni, un surrogato per eludere il posto di blocco tra l’inconscio e la coscienza. Molto del suo operato si spiega, supponendo che essa abbia il compito di accollarsi e soddisfare certi impulsi che non oserebbero apertamente, in prima persona, dire che cosa e chi sono”. Così Giacomo Debenedetti, che introduce, con la consueta lucidità, un aspetto centrale ne Le due zittelle, e in genere nella narrativa landolfiana.
Si è detto che la letteratura amata da Landolfi è stata la grande letteratura ottocentesca, quella che aveva ancora il compito di spiegare il mondo, e di dare un’interpretazione alle cose del mondo e ai comportamenti degli uomini. Ma forse è stato ignorato il reale peso e la vera funzione che quella letteratura ha avuto, nell’opera dell’autore di Rien va. Landolfi non è mai uno scrittore di maniera, nel senso comune della parola. Non imita generi e stili del passato in modo fine a se stesso. Per Landolfi la letteratura è un gioco, ma un gioco mai tranquillo. Un gioco pericoloso, fatto di mistero, e chiamato a rispondere a grandi interrogativi.
C’è un punto del racconto nel quale il narratore sembra voler gettare d’un tratto la maschera e dire le cose come stanno, quali siano le cose che gli preme davvero riferire. Si tratta delle pagine in cui si assiste al contraddittorio tra un vecchio monsignore, padre Tostini, e un giovane prete, padre Alessio, su quale debba essere la pena da infliggere alla scimmia, colpevole del sacrilegio che conosciamo. Sono pagine in cui il tono della narrazione muta di segno, offrendosi al lettore come un piccolo trattato teologico e morale. E sono pagine in cui sembra di respirare l’aria di una letteratura ancora dedita ai grandi temi, e alle grandi questioni. In questo animato dialogo, la figura di padre Alessio sembra apparentarsi senza ombra di indugio a certi personaggi dostoevskiani. Il prete è “l’idiota” che, stracciando il velo delle apparenze e delle convenzioni, dice una verità assoluta, e inaccettabile per i suoi interlocutori. Così che il lettore, abbagliato dalla lucida trattazione di questo piccolo trattato sul libero arbitrio messo in bocca a un personaggio apparso solo a tre quarti del racconto per poi rapidamente scomparire, dimentica che l’oggetto del contendere è, in fondo, una piccola scimmia. Ma in tale posizione del narratore non vi è nulla di derisorio nei confronti della Grande Letteratura. È che Landolfi sa bene che quella letteratura appartiene al passato, e che il nostro secolo è diverso da quello che lo ha preceduto. L’unica morale possibile è, a questo punto, quella che rientra nell’alveo dello stile e della retorica e, per dirla con parole di certo estranee a Landolfi, dell'”estetica letteraria”. La dissimulazione verbale diventa così l’ultima chance per confrontarsi con i grandi temi, e un povero animale l’unico eroe del nostro tempo, e il solo personaggio del racconto con cui il lettore possa avere un rapporto di simpatia. Le pagine che Landolfi dedica al supplizio di Tombo non possono ingannarci sulla reale natura di questo essere, orfano di una morale che non gli appartiene, e di cui paga le estreme conseguenze: “Infine Tombo, che s’era dibattutto furiosamente, si spense; si spense la violenza dei suoi sussulti, si spensero i suoi occhi che all’ultimo istante esprimevano ormai solo una sgomenta meraviglia. Le ferite non davano sangue; ma un sottil filo di sangue colava dall’angolo della bocca”. La grande letteratura del Novecento ci ha abituati, del resto, a simili personaggi e alle loro impreviste metamorfosi.