di Luca Giudici
Paolacci, Ronco
NUVOLE BAROCCHE
pp. 333, € 17,90
Piemme, Milano, 2019
Il romanzo giallo, e in modo affine anche il noir e il thriller, vive un rapporto molto stretto con la geografia e il territorio. Gli esempi sono numerosi: il commissario Montalbano ha il suo incarico nella stessa Sicilia in cui vive il suo creatore Camilleri, il suo parigrado Maigret svolge le indagini nella Parigi di Simenon; Sherlock Holmes guarda dall’alto la Londra in cui scrive Conan Doyle, come fosse il suo privato laboratorio d’indagine, così come Sam Spade e Philip Marlowe esercitano al sole della California, sotto le colline di Hollywood, rispettivamente a San Francisco e a Los Angeles, come i loro creatori Hammet e Chandler; Pepe Carvalho abita la Barcellona popolare di Vasquez Montalban, mentre in Italia i personaggi di Scerbanenco sono a loro agio nella nebbia milanese.
Si potrebbe procedere a lungo: la storia del romanzo giallo e noir è intimamente legata alla geografia, che poi altro non è che la riproposta sotto forma di una mappa della nostra storia e del nostro passato, come insegna Borges. I tutori dell’ordine, i detective (privati e non), i poliziotti, i flic, i personaggi di quello strano mondo letterario che è il giallo/noir sono quindi legati a un territorio, che spesso, oltre che essere il luogo di lavoro è anche quello in cui sono cresciuti, e in cui perciò ritrovano la loro storia, le tradizioni di un popolo. È perciò inevitabile riflettere sul fatto che alla fine, quando si svolge una indagine, si cerca sempre la propria storia, il tempo che è fuggito. Va da sé che in questo senso i detective si scoprono essere conservatori, tradizionalisti. Conoscono la loro terra, gli uomini (e le donne) che la abitano, si muovono con circospezione e molto di rado (e con fastidio) agiscono in trasferta. Alla base di questo legame con i luoghi, oltre che il senso stesso dell’indagine, vi è però anche un senso intimo della professione. Risolvere un mistero, trovare il colpevole di un delitto (e soprattutto trovare le prove), è un compito già complesso di per sé, al limite dell’impossibile, soprattutto per i mille ostacoli che il sistema stesso pone di fronte ai nostri eroi. Tutti i grandi detective entrano continuamente in conflitto con la burocrazia, con agenti di altri reparti, con i regolamenti stessi, con colleghi che li contrastano. A questo “fuoco amico” si aggiunge la scaltrezza dei ricercati, che chiaramente esercitano tutto quanto è in loro potere per sfuggire al loro destino di carcerati, se non peggio.
Infine, se questi ultimi non sono lumpenproletariat, per dirla con l’uomo di Treviri, ma si rivelano parte della classe dominante, la loro identificazione giunge sino ai limiti dei canoni di credibilità del romanzo stesso, e spesso (troppo spesso) si deve abbandonare la ricerca per i muri troppo alti posti dal sistema stesso a difesa dei suoi membri. Così succede che Nero Wolfe coltiva le orchidee, qualcun altro ama la cucina, o la chimica, o la filosofia, e questo perché ciò che emerge è la necessità di un momento di isolamento, di una riflessione, di una ricerca anche interna, nel senso che deve essere scollegata dall’elemento sociale, anzi, vi si deve opporre, lo deve contrastare, perché solo così può risolvere il caso e individuare il colpevole. L’uomo che fa le indagini è solo con il suo conflitto interiore, di fronte ha la complicità della società tutta. Questo momento precede sempre l’azione. La riflessione prevede che il nostro eroe, quale che sia, debba rivolgere la mente al delitto, per immergervisi e fare quanto è in suo potere per scoprirne le dinamiche. Tutto ciò nella gran parte dei casi rende l’investigatore una sorta di psicopatico, un isolato, uno che spesso viene guardato con sospetto, e che trova nei suoi colleghi i primi ostacoli allo svolgimento del suo lavoro. È per questo che l’abitare poetico, per parafrasare il poeta, è fondamentale. Ritrovarsi nella routine di una pratica, o di un ambiente, spesso salva i nostri eroi dalla depressione e dalla psicosi. I continui riferimenti a droghe e alcool come compagni di vita di molti interpreti del giallo / noir non dipendono solo dall’essere immersi nel mondo della malavita, ma da una affinità con il male che si rivela insopportabile. Essere affini al delitto, cercare questa vicinanza per poterlo fare emergere è devastante psicologicamente, e trova la sua salvezza solo in una disciplina e in un esercizio spesso affini alla meditazione.
Il paradigma del poliziotto (il paradigma indiziario, lo chiama Ginzburg) è evidentemente rispondente a un modello scientifico, dove le tracce, gli indizi, corrispondono alla classificazione degli esperimenti, ma con in più una dose più o meno elevata di intuito ed empatia. In Paolo Nigra, questo elemento è molto potente, anzi direi che è decisamente preponderante. La doppia penna di Paola Ronco e Antonio Paolacci, gli autori di Nuvole Barocche (Piemme 2019), il primo romanzo che vede come protagonista il vice questore aggiunto Paolo Nigra, ha volutamente accentuato questo suo aspetto istintivo, lontano dalle logiche ferree e razionaliste di un certo positivismo dell’indagine. Eppure Nigra non è certo esente dal rispetto dei cliché, pur reinterpretandoli in modo assolutamente personale. Nigra è certamente legato alla città dove lavora, ovvero Genova, la conosce nei dettagli e la apprezza soprattutto nei suoi lati più intimi, privati, lontani dalle strombazzanti vetrine dell’acquario per turisti. Però non è la sua città, come non lo è Bologna, dove sappiamo che era stato incaricato in precedenza, e in questo senso tradisce in parte quel sentimento di vicinanza alla terra proprio dell’investigatore di polizia, che, naso a terra, come un cane da tartufi segue le tracce del delitto. Il rapporto di Nigra con il territorio è chiaramente lo specchio dei suoi autori, che sono anch’essi in parte esuli. Difatti Ronco & Paolacci, pur vivendo entrambi a Genova, non sono originari della Superba. Ronco – come Nigra – è torinese, di quella Torino sempre un po’ cupa, da camminata veloce con il bavero del cappotto alzato prima di infilarsi sotto i portici, mentre Paolacci ha regalato al vicequestore aggiunto la sua città di adozione, quella Bologna dove ha vissuto per moli anni, prima di approdare al mare della Liguria. Bologna porta in dote a Nigra anche la sua iscrizione d’ufficio alla miglior scuola noir che vi sia stata in Italia, quella del compianto Luigi Bernardi. Ronco e Paolacci si conoscono sotto le sue ali, e imparano il mestiere da un uomo che oggi è riconosciuto da chiunque abbia scritto gialli, noir o thriller in Italia negli ultimi quarant’anni come un apripista senza pari. L’empatia che caratterizza Nigra ha in Bernardi le sue origini, in quella capacità di essere apparentemente asettico e legato al fatto puro, ma che contemporaneamente ti conduce verso una forte assunzione di responsabilità, e quindi a una potente partecipazione. È proprio in questo senso che possiamo senz’altro considerare Nuvole Barocche come un giallo sociale, proprio per la assunzione di responsabilità che il lettore è portato a fare propria. Nigra è dichiaratamente omosessuale, e la sua battaglia quotidiana in un commissariato di polizia è facilmente immaginabile. Nel momento in cui viene incaricato di indagare sul caso della morte di un giovane, anch’egli omosessuale e barbaramente ucciso, dovrà prima di tutto dimostrare di non essere inadatto a causa di un ipotetico e alquanto fantomatico coinvolgimento emotivo.
Il lettore, che in un primo momento assiste alle baruffe della coppia formata da Nigra e da Rocco, il suo compagno, quasi si trattasse di un canovaccio da commedia dell’arte, viene accompagnato per mano lungo il sentiero della condivisione, e portato a identificarsi, superando così la barriera della diversità. Analogamente i colleghi d’ufficio quando vengono introdotti assumono ruoli da caratteristi (possiamo dirlo che Paolacci & Ronco hanno in mente la serie su Neflix?), ma nel corso del romanzo vengono uno per uno snidati dalla loro indifferenza e costretti (convinti?) a partecipare, a sentirsi vicini a quel loro superiore così lontano da tutto ciò a cui erano abituati. È particolarmente significativo sottolineare come l’emersione di questi processi di progressiva identificazione viene compiuta dagli autori in modo sincronico, quindi non attraverso gli eventi, ma principalmente usando la lingua, alleggerendo quindi (con lo spirito di Calvino nelle Lezioni Americane) il testo dagli orpelli ideologici e evidenziando la quotidianità degli atti, proprio a mostrare come sia la discriminazione sia la partecipazione che la combatte non siano strumenti concettuali alti, bensì null’altro che la quotidiana condivisione di ciò che ci accade intorno. Seguiamo così Nigra passo dopo passo nella sua indagine, e siamo fieri della sua integrità morale, del suo rigore, sperando che Andrea, brutalmente lasciato a morire su di un marciapiede sotto la pioggia, trovi giustizia proprio grazie a Paolo Nigra. Ed è così che, mentre lo spirito di De Andrè pare aleggiare in ogni pagina, sin dal titolo e dall’exergo, nel finale si potrebbe scommettere che, di fonte a uno di quei tramonti sul mare come si possono vedere solo a Genova, risuoni la canzone omonima, dove Fabrizio ci racconta dell’amore di Andrea, e dei suoi riccioli neri, e di come si è perso, e non potrà tornare.
Luca Giudici è saggista