Sul Ponte diVersi
Ciò che siete vi oltrepassa a ogni istante. La poesia di Guido Mazzoni, 11 aprile 2019.
Dal fondo del binario 19 di Porta Nuova risalgono ben vestiti, dritti e pettinati verso l’uscita, quasi tutti con una valigetta veloce a quattro rotelle e uno zaino lucido sulle spalle: sono i professionisti dell’Italia più neutra. All’improvviso spunta tra loro anche Guido Mazzoni: stessa corrente ma scarmigliato, con un valigione fuori misura, una sciarpa colorata messa non all’esistenzialista e uno sguardo assorto, tra l’inquisitore e il naufrago. È gentile ma freddo: sembra studiarci. Così fino a Palazzo Nuovo, dove, sotto la pioggia, di botto si illumina: la facciata grigia e l’acciaio lo entusiasmano. Ne osserva i particolari e il contesto: gli studenti di oggi a spasso in uno scenario anni Sessanta; la frizione epocale tra il Burger King e la Mole, il linoleum antiscivolo…
Della Mole vuole fotografare come entra nelle aule, non come riflette, quindi saliamo al primo piano. Dopo aver sceso le scale esterne dove eravamo finiti per sbaglio – come chi svolta all’angolo sbagliato di un labirinto – finalmente troviamo l’aula giusta per l’ultimo scatto. Mazzoni è estasiato. Ora siamo noi a studiare lui. Mentre camminiamo verso la libreria, gli chiediamo il perché di tanto stupore, e lui risponde pressapoco così: lì è Torino; ma lì dove, incalziamo; nel rapporto tra Palazzo Nuovo e i suoi orologi: una grande macchina efficiente in cui – dice – quasi nessun orologio segna l’ora giusta.A questo punto, se non un’ora, almeno un anno è necessario riferirlo: nel 2010 Guido Mazzoni pubblica I mondi, la sua prima raccolta di poesia. I mondi si muove sull’orlo di territori, orizzonti, superfici, mondi. Siamo di fronte a una ridotta topografia che ha a che fare con contorni, perimetri, confini, che di rado arrivano a toccarsi. Insomma, siamo di fronte a una distanza. È questa tensione continua tra i vari mondi, gli individui, i sistemi – I sistemi, ricordiamo, era l’originario titolo scelto sulla scorta delle teorie di Luhmann – che tra le pagine si dimostra una forza capace di incidere un’impossibilità di sintesi. Così nella prosa Superficie leggiamo: «tu sei la superficie […] questa è ormai la tua vita, l’unica cosa che conta per te, l’orizzonte che non puoi oltrepassare».
Ma allora, ci chiediamo, se ognuno è «chiuso nel proprio territorio», se ognuno «si protegge prolungando abitudini, costruendo un territorio», se l’orizzonte non può essere oltrepassato, e se infine «nulla ci appartiene se non questo enorme repertorio, un mondo inciso dentro di noi come un cristallo o una scoria», che cosa resta tra questi mondi, o meglio, tra queste monadi? Lo sguardo dell’io che non può fare altro che segnalare e forse provare a misurare questa distanza:
Ora so che non ha senso rompere
la miopia che ci fa esistere, vedo diversamente
le monadi che ci proteggono, le loro trame del disordine;
seguo le macchie di luce che il sole
getta sul paesaggio, il cielo puro e indifferente.
Se la lontananza è la condizione inevitabile a partire dalla quale il soggetto è costretto a vivere il proprio presente, è possibile, in una certa misura, spiegare le forme e le ragioni di questa distanza, discutendole dall’esterno, cioè dal modo in cui l’io lirico attraversa e si confronta con la tradizione novecentesca che solo apparentemente si dimostra essere lontana. Sono molti infatti gli elementi che consentirebbero di rendere più vicina questa distanza. Oltre al modo di rappresentare l’esperienza, oltre alla funzione che l’io lirico, e ciò che ne rimane, assume, la spia di una simile presenza risiede nella serie di componimenti a nome Stevens, disseminati lungo tutto il suo ultimo libro di poesia: La pura superficie (Donzelli, 2017).
Da una parte proprio questi componimenti risultano essere il luogo dove viene attuato un dialogo abbastanza scoperto con una certa tradizione lirica, e dove ne vengono mimati modi, stilemi e forme. Dall’altra proprio attraverso Wallace Stevens, l’autore a cui apertamente si allude, ci si avvicina ad un “repertorio” tematico ben individuabile, che parla «di caducità, di dialettica tra universale e particolare, della natura costruita, immaginaria, della conoscenza umana e della vita», e a cui si riserva la costituzione di una sorta di “metafisica del libro”. Ed è proprio dalle parole di Stevens che emerge la fatica di accorciare le distanze del tempo, degli uomini, dei pensieri che portano segretamente in se stessi; parole che Mazzoni traduce e inserisce a metà di La pura superficie che suonano quasi come un monito rivolto a tutti i lettori a venire.
Ma per quanto si dica che uno è parte di tutto
c’è un conflitto implicito, c’è una resistenza,
essere parte è uno sforzo che declina,
si sente la vita di ciò che dà la vita così com’è.
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