Un cappello non è un elmo
di Valerio Fissore
Gallese di Londra, David Jones (1895-1974) era un poeta, pittore, disegnatore e saggista: in tutte queste competenze geniale ed eccentrico, Jones appare un uomo dovunque fuori posto e dovunque al posto giusto. Anticipatore, con altri nella prima metà del XX secolo, di una mentalità profetica in quanto membro della comunità artistico-economica ed ecologista che si raccoglieva intorno alla figura di Eric Gill, Jones non ha goduto della fortuna di molti suoi contemporanei come Eliot, Yeats, Auden o Dylan Thomas, che pure lo avevano indicato all’attenzione nazionale e internazionale. La sua fama è rimasta piuttosto circoscritta.
La prima guerra mondiale ha cancellato in Europa, come scriveva George Steiner, un’intera generazione, e Jones è stato fortunato ad esserne sopravvissuto e noi ad avere la sua testimonianza di quell’evento. In Jones l’idealizzata guerra medievale e la crudeltà indifferente della guerra del XX secolo sono apparentemente mondi separati; in realtà, nella diversità tra guerre combattute da singoli e guerre di massa, Jones indica una sostanziale identità, rappresentata nel suo protagonista di In Parenthesis, John Ball, insieme uomo ordinario e, a suo modo, eroe cavalleresco. È stata necessaria la ricorrenza del centenario della Grande guerra perché il suo In Parenthesis cercasse casa anche in italiano (Tra parentesi, ed. orig, 1937, a cura di Fabio Pedone, pp. 252, € 13, Mondadori, Milano 2018).
Chissà però se il lettore italiano sarà in grado di capirne il senso. In Parenthesis è un libro complesso, un libro su quella guerra e sulla guerra in genere. La sua universalità si incarna anche nelle individualità di nomi, cose e parlate minuziosamente identificati e identificabili in evocate identità londinesi, cockney, gallesi. Quale traduzione potrà mai rendere loro testimonianza? Esiste un limite entro il quale la testimonianza può essere resa? Potrebbe aiutare il lettore nostrano ad introdursi nella visione del soldato di Tra parentesi la lettura di un altro libro di Jones, disponibile in italiano anche se non menzionato nell’introduzione di Pedone: libro meno complesso, meno sperimentale, Il signore che dorme e altri frammenti (Bulzoni, 1987; ed. orig. 1974). È una raccolta di poesie che parlano di guerra al tempo dei romani, e di mito, di Re Artù; un libro quasi didattico che può fungere da introduzione al pensiero complesso di Jones, per il quale la storia non è un susseguirsi ma una permanenza di tempi e di miti. David Blamires scrive, a proposito di The Sleeping Lord, che Jones “ritorna alla figura del soldato in quanto manifestazione di un’esperienza fondamentale della razza umana”. Anche John Ball è un everyman, un ognuno, un tutti noi.
David Jones aveva una conoscenza indiretta del gallese, ma questo non gli ha impedito di costruirsene una consapevolezza culturale e di servirsi “creativamente” di quell’interferenza compositiva nella sua scrittura di In Parenthesis, secondo modalità che ricordano in particolare Dylan Thomas e Gerald Manley Hopkins. Purtroppo questa creatività non è rispecchiata nell’italiano di Pedone (che ovviamente non poteva riprodurre le specificità dell’originale) tramite una qualche forma di manipolazione di scrittura naturale a suggerire la singolarità creativa del testo. David Jones correda il suo racconto con un apparato di note senza il quale molti riferimenti e allusioni non sarebbero facilmente comprensibili anche per il lettore inglese. E questo suo libro è uno di quei casi in cui una traduzione in altra lingua e cultura non può essere compresa, anche in modo sommario, senza uno specifico apparato di altre note. Purtroppo queste note non sono state considerate necessarie e il testo rimane in molti luoghi oscuro.
Riguardo alla traduzione in sé, preme subito dire che la diffusa imprecazione dei soldati, bloody, e simili, è resa abusivamente con “che cazzo”, da un capo all’altro del testo italiano; che è traduzione impropria non solo perché bloody ha di per sé una diversa area e collocazione di significato, ma perché Jones stesso afferma il senso di bloody, ci dice che le imprecazioni vere dei soldati sono state da lui eufemizzate, che fossero bestemmia o oscenità. È obbligo per il traduttore confermare ciò che Jones ha voluto fare, nonostante la scelta dell’attutimento del linguaggio fosse dettata dalle circostanze e dal costume. Come al lettore originale anche al lettore italiano deve bastare sapere che dietro la forma castigata ne esiste una che può essere genericamente immaginata, ma non essere definita.
Perché mai, nella iscrizione dedicatoria viene alterato il nome di Treath Fawr in Traeth Mawr? I due nomi indicano una spiaggia grande, i due termini gallesi fawr e mawr indicano grandezza, mawr, major, maggiore, fawr, grande, e sono in certa misura sinonimi. La memoria di Jones ha scelto un suono e un’immagine, perché alterarla? O forse il traduttore ha trovato che in effetti si trattava di un refuso? Traeth, spiaggia, è termine gallese, ma anche treath, che è o variante o corruzione del primo termine, esiste. Ad esempio un Treath si dà in Cornovaglia, che non è Galles ma che con il Galles sta gomito a gomito ed è certamente termine gallese fuori confine. Nella memoria di Jones quello è il termine. Per quanto la variazione introdotta dal traduttore italiano possa sembrare trascurabile, è pur sempre un’indebita ingerenza testuale.
Quando un fosso in cui i soldati si riparano, “all but too shallow”, è descritto in italiano come “tutt’altro che troppo in superficie”, viene capovolto proprio il sentimento dei soldati, che il luogo è troppo poco sicuro. Infatti il loro giudizio è che il riparo sia quasi troppo superficiale per proteggerli. Ancora: Nullah, corso d’acqua, è termine bengalese adottato allora nell’inglese di molti soldati comuni, o dei loro padri, che avevano servito nelle colonie. È buona abitudine, nel tradurre, conservare i prestiti, perché dichiarano e descrivono il contesto culturale dal quale si traduce. Rendere nullah con “rivo” o altro, come fa Pedone, significa appunto perdere quel colore culturale che a David Jones preme rappresentare. Altrove, ancora, Pedone usa tosa, dialettismo italiano improbabile in Jones, per darling, termine di inglese ordinario. Scrivevo della collocazione socio-geografica minuziosamente data dei soldati; un esempio tra i tanti, eco dell’identità gallese di molti soldati del reggimento di John Ball e David Jones, è il seguente, che rivela famigliarità con il mondo delle miniere di carbone del Galles meridionale. La notte nella quale i soldati si muovono viene descritta come “The sodden night, coal-faced”. La traduzione dice: “la notte infradiciata dalla faccia di carbone”, che purtroppo non dà che la convenzionale associazione del carbone con la nerezza. Ma l’originale coal-faced è molto più sottile e connotato. Coal-face indica la parete di una cava o caverna di carbone, dove l’estrazione lascia tracce flebili di disegno, come di matita di nero su nero, che assomigliano alle tracce della notte, forse dei traccianti degli spari. Un gallese lo sa.
Ho detto che In Parenthesis è in più luoghi un testo prossimo all’intraducibilità. Una sua traslazione accettabile non può fare a meno di un apparato di informazioni linguistiche e culturali che aiuti ad evocare almeno in modo mediato echi e allusioni e implicazioni che appartengono ad una comunità fortemente locale. Ad esempio, la menzione di Fred Karno è insignificante se non si dice al lettore che Karno era un impresario teatrale, notissimo all’inizio del ventesimo secolo per avere lanciato Charlie Chaplin, e per i suoi spettacoli di music hall e ballerine. E se non gli si dice che The Holloway è un teatro di varietà di Islington a Londra. In questo specifico riguardo, non è chiaro che cosa significhi nella traduzione italiana che Karno è stato “fatturato”. Non si tratta forse della bill, della locandina del programma di varietà dei suoi spettacoli, che i soldati evocano e di cui parlano?
Altre stranezze. “On Sunday: they fell out the fancy religions”. Che cosa vorrà mai dirci il narratore? Che di domenica, o quella domenica, i fedeli delle “religioni eccentriche, strane” furono separati dai fedeli della dominante Chiesa d’Inghilterra. Non possiamo non essere un poco sorpresi quando nel testo italiano leggiamo che “Di domenica: litigarono per le religioni più belle”.
E ancora, Jones descrive il campo di battaglia cosparso di corpi morti. Ed ecco che il lettore italiano legge: “(corpi) giacenti alla rinfusa come vestiti abbandonati o mento sgualcito contro stinco…” In realtà, i corpi “stanno buttati sul terreno come vestiti scartati e acciambellati mento contro tibia”. Tanto per menzionare ancora un dettaglio militare, il saucer hat, il cappello che sembra un piatto, l’elmetto, il tin hat, che in Tra parentesi è denominato “elmo di stagno”, non è altro che il “cappello, o berretto, di latta” del gergo popolare e militare. “Elmo di stagno”, che di tin hat è trasferimento letterale, non ne possiede la scontatezza comunicativa naturale, fondamentale in contesto. E ancora, nel finale della narrazione, il Jerry, il crucco, morto fianco a fianco con Jerry Coke, è gioco di parole che deve essere mantenuto, per il suo elevato valore emotivo, reso più intenzionale dalla collocazione in chiusura di racconto: nella morte il tedesco e l’inglese sono uguali, sono fratelli, come già Jones aveva avuto occasione di far dire a qualcuno dei suoi personaggi. Se il gioco di parole non avviene, come non avviene in questa traduzione, il lettore italiano è privato della nota fondamentale che è intesa suggerirgli un’implicazione forte di universale fratellanza. Perché non si è provato a farlo? Magari con una minuscola forzatura: “il Jerry, il crucco, al fianco di Jerry Coke”. Magari qualcuno potrà fare meglio di così, e continuare a cercare, per In Parenthesis, una casa in italiano.
valerio.fissore@unito.it
V. Fissore ha insegnato lingua inglese e traduzione all’Università di Torino