Redistribuire un po’ di sovranità a tutti | Europa

di Roberto Barzanti

Riccardo Perissich
STARE IN EUROPA
Sogno, incubo e realtà
pp. 222, € 14,
Bollati Boringhieri, Torino 2019

Federico Fubini
PER AMOR PROPRIO
Perchè l’Italia deve smettere di odiare l’Europa (e di vergognarsi di sé stessa)
pp. 134, € 16,
Longanesi, Milano 2019

Due libri che analizzano la critica situazione delle istituzioni europee dall’interno del loro funzionamento, proponendosi di mettere a fuoco il problematico rapporto tra Stati nazionali e una difficile sovranazionalità. Perissich è stato un protagonista, nelle vesti di direttore generale del mercato interno, della fase più dinamica di una Comunità tesa a trasformarsi gradualmente in Unione. Fubini, vicedirettore ad personam del “Corriere della Sera”, è un giornalista che si è fatto le ossa lavorando a Bruxelles: i suoi articoli sono brevi saggi zeppi di dati di prima mano. In entrambi i casi il taglio testimoniale fa da sottofondo, ma non soprammettendosi o deformando ragionamenti condotti con una pertinente documentazione. La dimestichezza con le culture che s’intrecciano nelle sedi assiduamente frequentate favorisce una pacatezza che avrebbe giovato a un confronto elettorale sul merito delle cose, sulle correzioni da apportare, sui mutamenti di rotta da imprimere. La semplificante alternativa di stampo referendario – sì o no all’Europa – non ha fornito utilità alcuna circa il da farsi.

Secondo Perissich le critiche rivolte ad un’Unione priva di una legittimazione  democratica sono pretestuose: “Le scelte dell’Unione rispecchiano – scrive – la volontà della maggioranza della popolazione nella maggioranza dei paesi membri; sono quindi intrinsecamente democratiche”. A far esplodere una marcata diffidenza nei confronti del processo d’integrazione sono stati due fenomeni, l’ondata dei flussi migratori e il disagio degli sconvolgimenti sociali determinati dalla crisi economica globale. L’invalsa categoria di “populismo”, impiegata per etichettare ogni dissenso, non coglie differenze profonde e motivazioni non collimanti. “Gli errori compiuti dall’Ue – aggiunge – e i difetti della sua architettura non giustificano una certa vulgata autoassolutoria dei partiti nazionali che cercano di attribuire all’Europa la responsabilità della crescita del fenomeno populista”. Oltretutto – vien da precisare – le molteplici incarnazioni del fenomeno stentano a coagularsi in alternative percorribili. Fatto è che il distacco tra l’élite europea e i ceti dirigenti attivi a scala nazionale e, più ancora, una diffusa ostilità dell’opinione pubblica continuano a rafforzarsi pericolosamente.

Perissich entrò nei palazzi europei col drappello animato da Altiero Spinelli e ha constatato di persona come l’opzione federalistica non sia riuscita a permeare una costruzione che, di riforma in riforma, si è strutturata in termini sempre più labirintici, senza coniugare in modi chiari e procedure intelligibili il rispetto delle presenze nazionali con la pienezza di poteri di definiti e condivisi interventi. Non sorprende che, spingendo ad un giudizio conclusivo la sue agguerrite e bilanciate analisi, metta in evidenza un tema assai marginalizzato. Dalla sua ottica può affermare con cognizione di causa che l’Unione è il luogo per eccellenza del “compromesso centrista”. In mancanza di questa prudente saggezza sono inevitabili i rischi di un nefasto infiacchimento.

L’esasperata politicizzazione della Commissione e il confuso intreccio tra metodo comunitario e scontro intergovernativo, accentuatosi con gli anni, hanno introdotto squilibri paralizzanti nel sistema originario e hanno penalizzato o vanificato gli obiettivi di un autentico “interesse europeo”, principio quasi caduto nel dimenticatoio. Il dominio, poi, della Bce e dell’Unione bancaria, progettate in guise, esse sì, iperfederalistiche, hanno esaltato un perentorio economicismo a scapito di adeguate e incisive politiche sociali. La formula dell’“economia sociale di mercato” fino a che punto è diventata operante e soddisfacente? E fino a che punto si è stati in grado di promuovere, dopo il periodizzante 1989, quanto richiesto dai ragionevoli compromessi necessari?

In un passaggio piuttosto drastico l’autore perde le staffe e non nasconde che la “carta dei diritti sociali” voluta da Delors è rimasta pressoché lettera morta a petto dell’esorbitante invadenza conquistata dai parametri finanziari. Da realista qual è, Perissich non offre ricette miracolose. Anzi non crede proprio che il rimedio stia in una radicale riforma dei Trattati. Non accoglie con entusiasmo la retorica e fumosa visione enunciata da Macron. E allora? L’indicazione è una sola: dotare l’Unione di risorse più sostanziose e mettere in atto risposte tempestive e efficaci che già le norme vigenti rendono in parte fattibili se diviene egemone una leale convergenza sui fini generali. Scorciatoie non esistono. La Commissione resti un collegio, il Consiglio attenui la sua supremazia. Il Parlamento eserciti il suo accresciuto ruolo dettando l’agenda. I partiti divengano più europei: “Il principale elemento di debolezza – conclude l’estensore della lucida diagnosi – è dovuto al fatto che i partiti europei sono in realtà ancora confederazioni dei partiti nazionali che vi aderiscono”.

Fubini pone al centro del suo viaggio il problema di come stare in Europa, non isolandosi in un lamentoso e ostile antagonismo ad una più alta e attrezzata dimensione politica. Pensa all’Italia, ma il suo sguardo si allarga a altre situazioni-limite. Il progetto europeo non è riuscito a sintonizzarsi con i mutamenti intercorsi dai fecondi anni fondativi: “Non abbiamo capito per tempo – annota – le novità del secolo, come hanno fatto altri”. Eppure il dilemma che oggi si prospetta è secco e drammatico: “La scelta è fra Europa e Impero: impero degli altri, qualche impero più lontano e meno democratico al quale finiremmo con doversi sottomettere in cambio di un po’ di aiuto, senza aver voce in capitolo sul nostro destino”. La delusione è comprensibile, ma per impedire il crollo sbandierare l’ideologia di un sovranismo d’accatto è una falsa soluzione. L’appartenenza all’Ue ha promosso modernizzazione pur non mantenendo le aspettative suscitate: “La più evidente è che la promessa di prosperità o almeno di normalità offerta dall’euro non è stata mantenuta”. Anche l’europeismo che in Italia ha primeggiato è stato fideistico, restio a trarre le dure conseguenze per essere in grado di affrontare le sfide che ne sarebbero derivate evitando subalternità e affanni. Fubini dimostra a suon di cifre inconfutabili come la gabbia dell’euro, concepita secondo il disegno tedesco, abbia allargato la forbice del potere di acquisto della moneta in un’Unione che non si è collocata dalla parte dei “perdenti della globalizzazione”.

Così è nato “il classico fenomeno dello scaricabarile”: “ciascuno, appena può, cerca di incolpare gli altri governi e di delocalizzare a loro carico i problemi che alimentano il rancore, la collera e la protesta”. La vicenda della Grecia è stata istruttiva. La Brexit ha introdotto lacerazioni rovinose. La paranoica avversione a ogni tipo di debito considerato il male assoluto da sconfiggere non è stata la via migliore da imboccare. Anche Fubini ritiene che sarebbe ingenuo inseguire come toccasana, in un clima tanto rissoso, una revisione radicale dei Trattati. Non resta che impegnarsi per un’Europa più forte e più integrata che si prefigga di “redistribuire un po’ di sovranità a tutti”. A testa alta, però, e non rifuggendo dalle responsabilità storiche che l’attuale transizione pretende.

roberto.barzanti@tin.it

R. Barzanti è studioso di storia contemporanea