Piovanelli e beccacce parlano una lingua dalle lunghe vocali
Intervista a Halldóra Thoroddsen di Camilla Valletti
Halldóra Thoroddsen
DOPPIO VETRO
ed.originale 2018, trad. dall’islandese di Silvia Cosimini,
pp 101, € 15.00,
Iperborea, Milano 2019
Halldóra Thoroddsen esordisce in Italia con un romanzo molto atipico per scrittura e contenuti. Apparentemente potrebbe essere la storia tra un’anziana vedova e un chirurgo divorziato di pochi anni più giovane di lei. Lo scenario è Reykjavík, una città che ha subito gravi cambiamenti a causa di una modernizzazione poco studiata ma che conserva ancora un cuore storico. In verità è un racconto in presa diretta delle speculazioni che affollano la mente della protagonista: pensieri tangenziali all’amore, al tempo, alla malattia, ai figli, alla casa. L’originalità del testo risiede nell’uso dei tempi narrativi. Passato, presente e futuro sono mescolati proprio come quando un’immagine, un particolare colore, un passaggio di un animale, rievocano in noi ricordi e proiezioni. Ed è alle brevi epigrafi che segnano il flusso del racconto che la scrittrice affida il compito di riportare il lettore al presente. “Le oche passano in volo per un ordine”, “Aria ferma e gelida, i brevi giorni invernali accendono le luminarie del cielo”, “Si lima le unghie prima alla mano destra e poi alla sinistra”, “Edredone, piovanello e beccaccia di mare, spumeggiante erotismo sulla riva” sono alcune delle spie disseminate dentro al testo, luci all’improvviso accese nell’ombra di una solitudine.
“Il suo corpo è un nido abbandonato”: così riflette la protagonista del suo romanzo. Che cosa mai ci troverà Sverrir in lei? Quale tensione può nascere tra due corpi inesorabilmente invecchiati?
Non c’è traccia di desiderio tra loro due. È una necessità che sorge dalla solitudine e dalla capacità di speculare sulla vita. La passione non c’entra, non ha nulla a che fare con la loro storia. È lei che le dà un vita proprio con il suo pensiero, con quel suo chiedersi ingenuamente “ma questo che cosa vuole da me? Che persona è?”. Lei ha perso qualsiasi ruolo nella vita. Come studiosa, come madre, come moglie, come amante. Com’è possibile che un uomo si interessi a lei? Non ha risposte, ma la ricerca di un nuovo ruolo le consente di entrare in una nuova storia d’amore. Ha bisogno di essere riconosciuta. Tutti noi tendiamo ad isolarci in compartimenti stagni e vuoti, ordiniamo in scatole i nostri bisogni. Lei cerca di rompere con questo tipo di segregazione sentimentale facendosi coinvolgere.
La sua protagonista è una donna colta, formata in Europa, dove ha avuto una fugace relazione con un sedicente filosofo parigino. Come vedete dall’Islanda l’Europa?
È molto normale per noi Islandesi andare in Europa a studiare. Ora i giovani islandesi restano a studiare nel nostro paese ma trent’anni fa non era possibile, il paese non era attrezzato. La mia protagonista è abbastanza speciale perché ai tempi della sua formazione era tutt’altro che frequente che una ragazza viaggiasse per motivi di studio. È una donna curiosa che cerca una forma d’avventura ma poi si risolve a tornare indietro perché sente di essere figlia di un secolo preindustriale. Con il filosofo francese le cose si mettono male perché lei non conosce malizie, non sa sedurre, non riconosce le forme delle liaison dangereuse, le forme galliche, come le chiamo io!
Lei sembra amare molto la sua lingua, “lingua dalle vocali lunghe”, come la definisce la sua protagonista.
Io vivo dentro alla mia lingua, è l’unica nella quale mi trovi a casa. Da lì proviene la nostra cultura. Ed è lì che la mia protagonista abita. In lingua islandese sono stati scritti tutti i grandi cicli di poemi medievali e le saghe, che sono state dei veri laboratori linguistici in cui c’è stato un grande apporto dal basso e in cui l’oralità ha avuto un peso decisivo. Forse stiamo perdendo quella natura particolare della nostra lingua. I problemi sono sempre gli stessi, in particolare la pervasività della tecnologia, ma la questione linguistica è davvero molto sentita in Islanda.
Perché ha scelto di raccontare attraverso i pensieri della sua protagonista, perché ha scelto questa particolare angolatura?
Perché in questo modo lei cerca di ricostruire un mondo. Un mondo da cui ripartire e da consegnare al figlio. Forse. Un mondo che la allontani dalla paura di morire. Quando muore il suo amante, Sverrir, sembra quasi non soffrire e lascia la scena alla sua ex moglie, che conosce molte più cose di lui. È una donna che sta facendo i conti con la solitudine proprio quando le pareva di avere trovato qualcuno che la potesse alleviare. Pensare a tratti, in modo disordinato ma ininterrotto, è come vincolarsi al mondo che la circonda. È una donna matura che sa stare al suo posto. Non ha più paura perché ogni cosa a cui guarda le risuona come vitale e conosciuta.
In Islanda esiste una comunità di scrittori molto attiva. Bergsson, Stefànsson, Ólafsdóttir: sono noti anche in Italia. È vero che siete un paese di grandi lettori?
Purtroppo non è più vero come in passato. Leggo molto volentieri i miei colleghi. Ci conosciamo bene tutti e ci frequentiamo, siamo amici. Sentiamo la forte eredità letteraria del nostro passato con cui cerchiamo di convivere. Siamo abituati a comunicare con le storie. Siamo dei grandi consumatori di storie.
Reykjavík sembra quasi essere un personaggio a parte, nel suo libro. Come mai ha tanto peso?
Io amo Reykjavík, quella che non è stata investita dai tecnocrati che l’hanno ricostruita in modo stupido e noioso. Come in tutto il resto del mondo, hanno costruito centri commerciali e svincoli autostradali. Il nucleo medioevale esiste ancora anche se è molto piccolo. Vedo però che ultimamente c’è un gusto per ritrovarsi insieme in un altro modo, un desiderio di rimettere insieme i pezzi di una città scollegata da interessi commerciali. Il romanzo è ambientato all’inizio della primavera quando in città fa ancora molto freddo ma è il tempo del ritorno degli uccelli migratori. Reykjavík è ricchissima di uccelli. Per la mia protagonista possiedono un forte richiamo erotico, sono veri emissari di un mondo naturale selvaggio e così vicino alla città che ne respiriamo la presenza.