recensione di Matteo Fontanone
Fabrizio Patriarca
L’AMORE PER NESSUNO
pp. 326, € 18,
minimum fax, Roma, 2019
Il senso del terzo romanzo di Fabrizio Patriarca, dopo un lontanissimo esordio con Gaffi e l’ottimo Tokyo Transit per la narrativa italiana di 66th and 2nd, sta in una manciata di parole a metà del libro: «non è che l’amore sparisce, è solo che non c’è più niente da amare. Medea ci lascia con l’amore per nessuno». Riccardo Sala è un uomo alle corde, il protagonista di una vita già ampiamente accomodata sulla strada del fallimento. Sceneggiatore talentuoso ma in declino, tira avanti senza dare troppa attenzione al lavoro e combatte gli anni che passano gonfiando il suo corpo in palestra, allusione esposta per cui è difficile non pensare ai culturisti tanto cari a Walter Siti. Erotomane quanto basta, spaccone a comando ma col ghigno triste, Riccardo non conosce pace, alle prese con la morale soffocante della quasi ex moglie, l’impenetrabilità della quasi fidanzata, gli sperperi economici con cui suo padre si scorda la depressione di essere vedovo. Una sera, l’ennesima che ha buttato via tra porno e binge-watching su YouTube, ha l’illuminazione che potrebbe dare nuovo slancio a quel fiasco che è diventata la sua carriera: una riscrittura della Medea di Euripide recitata da Annamaria Franzoni. Qui sta la provocazione postmoderna di Patriarca: rendere plausibile il grottesco, dare una fattualità all’ultimo dei tabù, sciogliere la realtà cronachistica – il delitto di Cogne, per cui Franzoni è stata condannata – nella rappresentazione tragica che però si fa parodia. Mischiare i piani fino a comprometterli entrambi.
Da questo punto, a rigor di logica, dovrebbe partire l’intreccio del libro: la ricerca di un soggetto cui proporre l’idea, le difficoltà, le trattative, gli incontri e le mediazioni che si celano dietro alla produzione di un formato televisivo. Il progetto franzoniano, in realtà, rimane sul fondale. Certo, è vero che la trama è questa e Patriarca la sviluppa fino alla conclusione del romanzo, ma la sensazione è che la storia sia un pretesto, che dietro all’analogia scintillante tra Medea e Annamaria Franzoni si nasconda un intento più semplice, raccontare un personaggio con tutto il suo carico di cinismo e la sua psiche complessa dall’interno di una prima persona singolare, niente di più. Un compito, lo diciamo subito, ben svolto. Riccardo si muove in un tempo lentissimo e impastato: non c’è urgenza, non ci sono scadenze a breve termine, tutto è posticipabile e nulla, nemmeno la folle teoria in cui investe la credibilità che gli resta, sembra serio agli occhi del lettore. La sua è una realtà annacquata, un mondo senza paesaggio popolato da figure il cui tratto comune è un certo sguardo caustico sulla vita: ci sembra tutto inverosimile, portato all’eccesso e troppo esibito per essere credibile, ma la tragicommedia di Patriarca, questa la tesi di fondo, non è poi così distante dal nostro quotidiano. Il romanzo procede per scene molto spesso dialogate, dove Riccardo interagisce con gli altri personaggi (su tutti Nairobi, un ex studente di origine africana silurato dall’accademia che passa i suoi giorni a leggere manoscritti nel bar di fronte all’università), oppure si torce all’indietro, in ricordi e anamnesi. I trascorsi della sua famiglia, il cancro che uccide la madre, il matrimonio surreale e ormai esaurito con Mara, sexy eppure bigotta, generosa ma cristianissima. Il cuore del libro sta in queste due nicchie, nel doppio movimento verso i campi d’indagine della malattia e del sesso per come vengono interiorizzati nel ventunesimo secolo. È l’uomo che, dopo gli schermi, le giravolte e l’ostentata indifferenza si svela per ciò che è davvero, piegato dal dolore ancora acuto per la perdita della figura materna e – tema non secondario – dall’insicurezza per una mascolinità sempre più faticosa, ormai abituata a risolvere l’impotenza con gli aiutini chimici. Una virilità così complessa e frustrata da portarlo, in coda al libro, a cedere la giovane fidanzata a un produttore di successo nella speranza di vedere concretizzarsi la sua Medea.
La scrittura di Patriarca è tra le più energiche dell’attuale scena letteraria, debordante, anabolizzata come i muscoli del suo incerto protagonista. Metafore esagerate, immagini pulp, la tensione ondulatoria del pastiche: allusioni coltissime e preziosismi contrastano, magari una riga più sotto, con passaggi triviali al limite del disturbante. Tra gli autori che hanno esordito negli ultimi anni, non è facile trovarne uno più padrone della lingua, più affascinato dalle capriole e dai vezzi della forma. Patriarca ha letto molto e ha fatto sua la lezione degli americani; ora, non senza un po’ di compiacimento, ricicla questo suo enorme bagaglio per mettere in scena il proprio alter-ego con tutti i virtuosismi del caso e costruirgli intorno una vita di macerie, frantumi, remote possibilità di redenzione. L’amore per nessuno, a seconda della sensibilità di chi lo legge, ha etichette molteplici: esercizio di stile, aggiornamento della narrativa postmoderna italiana, ritratto spietato degli aspetti peggiori di noi, divertissement impegnato. Forse, ed è per questo che il romanzo è terribilmente attuale, Patriarca ha scritto in bella copia un’apologia, l’ennesima, del disincanto e del rammarico.