Mario Soldati – Lo smeraldo

di Dario Gattiglia

Mario Soldati
LO SMERALDO
pp. 384, € 13,
Bompiani, Milano 2018,
Prima edizione: Mondadori, Milano 1974.

Anno 1970: Mario Soldati, amatissimo viveur delle arti italiane, pubblica L’attore, inaugurando il decennio più cupo dalla fine della guerra con l’ennesimo successo, presto confermato dalla conquista del Premio Campiello; fra gli altri avversari, Soldati lascia sul campo il decano Carlo Emilio Gadda, alla sua prima e ultima partecipazione. Tre anni dopo, nel rivedere il suo Anonimo Lombardo, Alberto Arbasino confermerà il giudizio: i celebri «nipotini dell’Ingegnere» vantano anche un «padre», di una generazione più giovane.
Anno 1971: l’editore Mondadori manda in stampa 55 novelle per l’inverno di Mario Soldati, volume che col solo potere d’ingombro (750 pagine di cartonato) testimonia l’irresistibile processo di monumentalizzazione in fieri del torinese: allo scadere esatto del lustro, sugli scaffali avranno trovato posto anche Un prato di papaveri e Lo specchio inclinato, diario intellettuale che riflette i più vari movimenti di Soldati dal 1947 all’apertura degli anni ’70.

Incastonato fra i due volumi di memorie e prima prova narrativa di ampio respiro dopo L’attore, era intanto uscito Lo smeraldo; il tratto del copertinista Ferenc Pintér – prestatosi più volte al torinese – minimale, elegante, fondato sul fascino monolitico di sfondi spesso candidi, trovava qui il proprio nadir: un unico sbaffo nero che si andava ad aprire in forma floreale, insieme suggestiva della femminilità. Ugualmente, curiosamente essenziale risultava la presentazione dove Cesare Garboli, amico storico di Soldati e primo lettore del romanzo, in soli quattro paragrafi costretti nello spazio di un risvolto, ragionava per categorie: «Argomento» e «Stile». Lo smeraldo torna in libreria nell’autunno 2018, con una veste grafica altrettanto tesa verso l’estremo: l’intera copertina vibra di un inedito rosa shocking, sopra autore e titolo si stendono intrecci di scale e bagliori. Fra gli apparati viene inoltre riproposta, come aveva voluto lo stesso Soldati, la generosa recensione di Pier Paolo Pasolini: l’autore dichiarava infatti che, fra i propri critici migliori, era stato il friulano ad aver trovato la «chiave» del suo romanzo «più fantastico […] e uno dei più vissuti». Spia di una disposizione mai sopita a essere letto più che a leggersi, e forse anche ennesimo bon mot, tenuto conto che Pasolini gli aveva dato, fra le altre cose, del «pagliaccio», del «buffone», del «demone» e, soprattutto, del «baro». La nuova quarta di copertina sembra fare invece ancora più fatica di Garboli a inquadrare il tutto, limitandosi a poche righe di circostanza dove spicca una definizione di quelle buone per tutte le stagioni, da cui guardarsi: «echi orwelliani». Ma è chiaro come l’impianto de Lo smeraldo nasca per attirarsi ogni definizione: è stato detto, di volta in volta, romanzo di viaggio, fantapolitico, gesuitico, cavalleresco (più precisamente: ariostesco), confessionale, e addirittura – secondo uno dei pochi critici ad avere avuto la tempra per tornarvi sopra a più riprese, Stefano Verdino – «l’ultimo meloromanzo».

A Manhattan, in un leggero futuro, il solito protagonista che è e non è Soldati avvicina un tal Count Cagliani, «cittadino belga, ma old newyorker» autoproclamatosi litomante, il quale lo invita a una cena esoterica avvolta in colori tra Marlowe e Da Ponte. Qui prende le mosse la recherche del protagonista, guidato dalle predizioni del vecchio indovino e inseguito dal buonsenso implacabile di una moglie che è e non è la seconda consorte di Soldati: volare in Francia, a Saorge, e recuperare un favoloso smeraldo, eredità andata perduta come nei migliori melò. Sullo sfondo delle Alpi Marittime inizia tuttavia un sogno, un sogno che si avverte «controllato», dove il personaggio diventa e non diventa André Tellarini di Tellaro (residenza di Soldati e del suo protagonista), pittore privilegiato in un mondo con pochi privilegi, diviso tra un Nord militarizzato e un Sud barbarico. Ottenuta nel sogno la pietra, André-Soldati svela di aver sempre mirato, fin dall’inizio, a un adulterio con un amore passato, da consumarsi adesso, nel futuro. Il resto è la storia di una «fuga in avanti» alla volta di Napoli, dove risiede la donna a cui donare il magico smeraldo. Oltre a questo viaggio fra spazio e tempo, intrapreso da Soldati dopo un ritorno nell’America famoso primo amore, il lettore si trova a dover seguire un altro tracciato, snodato fra gli estremi del racconto, attraverso lingue e segni fra i più diversi: dalla triplice epigrafe in volgare, francese e spagnolo (Dante, Flaubert e il Machado che Después soné que sonaba, e che apre così, subito prima di lasciare spazio a Soldati, un’ulteriore biforcazione) il libro va a chiudersi su un distico latino che nega molto di quello che lo ha preceduto e insieme lo sigla: in senectute salus/in juventute jugum. Nel mezzo, grafie di cognomi messe in discussione, i graffiti neoprimitivi degli hippies americani, caratteri cirillici trascritti e tradotti con fatica, chilometrici titoli nobiliari, e molti scambi in inglese e francese, a volte tradotti, altre no.

Ma attenti a seguire il gusto eccessivo delle simmetrie e delle allusioni, poiché molte di esse sono neutralizzate per tempo dal «baro» Soldati, o appaiono già prescelte per la loro ingenuità spudorata, in odore di commedia, a partire dall’onomastica dei figuranti stessi: la situazione della terra in questo futuro più o meno prossimo è annunciata dal cane Mao Settimo («Perché si chiamava Mao Settimo? Perché, certamente, erano esistiti altri Mao, dal Primo al Sesto»), mentre la donna a cui tendono viaggio, pietra e narratore è battezzata Mariolina, «goffo nome da sartina torinese e perciò sublime» come scrisse a Soldati un amico. A rimanere è un libro miracolosamente debole nelle singole parti, che lasci così la narrazione più libera di scorrere; strano questo futuro abitato da amori passati, totalitario eppure patrono delle arti, sostenitore dell’energia pulita e garante di un indennizzo per i colpiti dal disastro atomico, dove il pericolo maggiore è rappresentato da una sessualità fluida come tutto ciò che la circonda, a rischio di farsi davvero deviata quando è sentita come tale dal singolo, quando è scelta, piuttosto che imposta.

Il romanzo successivo del torinese, La sposa americana, avrebbe ben ricompensato l’attesa di un Soldati meno misterico, di nuovo all’altezza delle cose: sarà la sua storia d’amore più bella e aerea, ancora meno «vischiosa» di quanto Pasolini già aveva ammirato. Tenendo in mente il rispetto di quest’ultimo verso una scrittura così «mitemente fraterna», vogliamo fare una scommessa: abituato il giovane lettore alle distopie più a buon mercato, una prima deviazione su sentieri diversi potrebbe offrirla questo strano libro. D’altronde, Il viaggiatore incantato potrebbe essere il titolo di questo, di molti altri romanzi di Soldati, come una descrizione dei suoi lettori più affezionati.