Tra colloquial-pop e sentenziosità esoterica
di Beatrice Manetti
Emanuele Trevi
SOGNI E FAVOLE
pp. 218, € 16,
Ponte alle Grazie, Milano 2019
Per Gianni Celati la storia collettiva è un bazar archeologico, un cumulo incoerente di “frammenti, oggetti, relitti d’un passato ormai privo di contesto (…) ciò che Walter Benjamin chiamava ‘avanzi di un mondo di sogno’”; stando così le cose, i grandi racconti epici non possono che cedere il posto alla “collezione, alla raccolta di tracce di sistemi scomparsi, la cui testimonianza è solo testimonianza d’un taglio”. Per Emanuele Trevi anche la storia individuale è un magazzino di reperti irriducibili al pensiero sistematico, quindi alla narrazione romanzesca. Basta allontanarsi da sé stessi di una manciata di anni per trovarsi a gettare sul proprio passato lo sguardo che si dedicherebbe a una tavoletta babilonese oppure, che è lo stesso, quello di un sonnambulo. Nelle prime pagine di Sogni e favole, l’ultimo scorcio del Novecento appare in questo modo anche a chi l’ha vissuto, forse soprattutto a chi l’ha vissuto: retrocedendo di qualche anno rispetto all’ambientazione di Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012), ma mantenendone il tono e l’attitudine stilistica, Trevi allestisce la sua collezione di reperti di un’epoca prossima nel tempo e perduta alle sue motivazioni originarie – gli anni in cui c’erano ancora i cineclub; gli anni nei quali una popolazione variegata di esteti, ossessi e dropout trascorreva intere giornate a mollo nella lentezza oggi inimmaginabile dei film di Angelopoulos e Tarkovskij; gli anni in cui c’erano ancora gli artisti, che a differenza delle celebrità (o meglio, delle celebrities) non erano tali in virtù di una fama misurata in followers ma in quanto portatori di un destino.
È proprio nel cineclub romano dove il giovane Trevi lavorava all’inizio degli anni ottanta, e per l’appunto al termine dell’ultima proiezione giornaliera di Stalker, che appare il primo personaggio numinoso di questo “libro strano”, né saggio né ritratto, né biografia né romanzo di formazione, e in fondo un po’ tutte e quattro le cose. Immobile nella sala ormai vuota, col volto rigato di lacrime e l’espressione estatica, Arturo Patten incarna agli occhi del suo interlocutore sconcertato l’esperienza dell’adesione totale alla bellezza, dell’identificazione verticale con le proprie esperienze più profonde. Come il luogo in cui si trova, come il film che ha appena visto per la centesima volta, anche Patten è un reperto novecentesco, e Trevi può ricostruirne la vicenda solo per frammenti: la maestria, tanto tecnica quanto psicologica, nell’arte del ritratto fotografico; il libertinismo gioioso e la liberalità; la prepotenza generosa con cui impone agli amici le proprie passioni per un libro, un quadro, un altro essere umano; la malattia e il suicidio. Gli altri due protagonisti del libro entrano in scena grazie all’attrazione magnetica del “pianeta Arturo”: per prima Amelia Rosselli, che ha abitato per vent’anni a pochi passi dalla casa del grande fotografo americano e che per lui ha posato; infine Cesare Garboli, che Trevi incontra in compagnia di Arturo di fronte a Santa Maria della Pace e che nel cuore di una notte romana improvvisa per il suo pubblico ristretto un memorabile monologo-lezione sul sonetto di Metastasio che dà al libro il titolo e il tema portante: “Sogni, e favole io fingo; e pure in carte / mentre favole, e sogni orno, e disegno, / in lor, folle ch’io son, prendo tal parte, / che del mal che inventai piango, e mi sdegno”.
Metastasio, con la sua vita tiepida e operosa di poeta cesareo, è a prima vista il polo opposto dei tre modelli di artista dei quali Trevi indaga le tracce e le ferite; eppure, proprio per questo, ne illumina il segreto: la sua levigatezza è il rovescio delle loro asperità, la sua temperanza l’altra faccia della loro irruenza. La scoperta fondamentale che l’autore più acclamato e prolifico d’Europa fa alla corte degli Asburgo nella primavera del 1733, e che affida a uno dei suoi rari testi non d’occasione né su commissione, è la stessa che prima di lui aveva fatto Calderón de la Barca e che dopo di lui faranno Puškin, Henry James, Kafka e Pessoa: è il segreto dell’arte di pochi e la chiave della vita di tutti.
È anche il dissidio di fondo del Trevi scrittore e personaggio, diviso tra la tentazione di un materialismo libertino che trova la sua intonazione ideale nell’umorismo e nella sprezzatura (lungo la linea antitragica di Molière-Rossini-Hoffmann-Bulgakov) e l’aspirazione a un senso ultimo, col suo corteggio di trascendenza e sublime sempre affacciato sulla soglia del Kitsch; tra il registro colloquial-pop della storia di un apprendistato anni ottanta e la sentenziosità esoterica dell’iniziato, o dell’aspirante tale, a una qualsiasi verità, purché ultima; in breve, tra Pier Vittorio Tondelli e Elémire Zolla. In questa tensione, del resto, è trascorso l’ultimo ventennio del secolo scorso, lasciando a chi gli è sopravvissuto almeno una certezza: certi fantasmi sono più vivi di coloro ai quali fanno visita. Di loro si può dire che hanno creduto fino in fondo ai loro sogni e alle loro favole, talmente a fondo da diventare i sogni e le favole di altri.
beatrice.manetti@unito.it
B. Manetti insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino