Intervista a Roberto Casati di Vincenzo Viola
dal numero di giugno 2015
Perché va preservata la biodiversità nell’ecosistema dell’istruzione
Roberto Casati è direttore di ricerca presso il Cnrs di Parigi, membro del think tank Compas su nuove tecnologie, cognizione e educazione; responsabile con Daniel Andler e Elena Pasquinelli del modulo Educazione, cervello e cognizione al CogMaster dell’ École normale supérieure di Parigi; e autore con Goffredo Puccetti del design watch Mangrovia; il suo libro Contro il colonialismo digitale (Laterza 2013) è stato tradotto in francese e in spagnolo.
Da almeno vent’anni il binomio informatica e scuola viene evocato come la panacea dei problemi della scuola italiana, ma non si vede ancora un progetto con un chiaro obiettivo: quali le ragioni di questo ritardo progettuale?
La scuola e la tecnologia hanno velocità diverse. Questo riflette in piccolo un problema molto più ampio di diversa velocità tra società e cambiamento tecnologico. La tecnologia conosce un’evoluzione esponenziale. Il cervello umano si evolve su scale temporali al confronto lentissime. La società e la cultura (incluse le pratiche di insegnamento) sono un po’ in mezzo, ma certo non riescono a tenere facilmente il passo con l’evoluzione tecnologica. Penso che non sia nemmeno necessario che lo facciano, e in alcuni casi mi pare del tutto controproducente. Quindi non parlerei necessariamente di “ritardo”, parola inutilmente ansiogena.
Vorrei però entrare nello specifico della domanda. Una cosa è insegnare l’informatica. Un’altra è insegnare a usare un computer, e un’altra ancora sapere quali cose si possono trovare su uno schermo. Il focus si è spostato verso l’uso e non è più sull’informatica. A vero dire adesso il focus non è più nemmeno sull’uso, ma sulla presenza di gadget nelle classi. Non ci si chiede più: i nostri studenti capiscono come funziona un computer? E non ci si chiede nemmeno: i nostri studenti sanno usare in modo efficiente un computer? La domanda è diventata: i nostri studenti hanno un tablet ultima generazione in cartella?
Un rapporto recente di Ofcom (il regolatore indipendente dei media nel Regno Unito) dice di misurare il grado di alfabetizzazione sui media (media literacy) degli adulti. È interessante guardare che cosa è stato misurato. Non la competenza informatica e nemmeno, direi quella tecnologica, quanto piuttosto la conoscenza dell’esistenza di certi brand come Google o Facebook. Si tratta, direi, più di un’indagine di mercato, che vede gli studenti come consumatori. Riflette benissimo la tendenza in atto. Messe così le cose, non mi stupirei se poi si vuole parlare di “ritardo” in generale. Ma le cause del “ritardo progettuale” sono facili da rimuovere. Basta insegnare l’informatica, punto. I suoi principi di base sono completamente indipendenti dal modello di computer che si vuole utilizzare. Anzi, si può benissimo insegnare l’informatica senza nemmeno utilizzare un computer, come dimostra il meraviglioso modulo “Unplugged”. Già dalle elementari si può cominciare a spiegare che cos’è una macchina a registri, si può studiare per bene che cos’è un algoritmo, e si possono costruire dei computer niente affatto banali facendo muovere delle biglie colorate da un bicchiere all’altro. Come è stato fatto notare, la rivoluzione progettuale consiste nel passare da un modello in cui i computer stanno nelle classi e non si sa nemmeno che cosa sono, a un modello in cui si studiano i computer senza necessariamente averli nelle classi.
L’innovazione tecnologica richiede una precedente innovazione pedagogica e didattica? O la produce? E in quale direzione può andare il cambiamento connesso all’informatica?
“Innovare” è una parola falsamente neutra, su cui si presuppone un facile consenso. Chi non vorrebbe innovare? Il fatto è che non tutte le innovazioni sono un progresso; mangiare con i piedi è un’innovazione immensa e rivoluzionaria, ma ne facciamo volentieri a meno, grazie, perché non offre nessun progresso. L’innovazione pedagogica (nel senso di miglioramento delle pratiche di insegnamento, ma anche della ridefinizione dei fini dell’insegnamento) è importante, e per questo non è un obiettivo che si affronta a tavolino o con parole d’ordine. Nasce sul campo, dalla pratica di ciascun insegnante, e nasce in laboratorio, con le scoperte delle scienze cognitive sui processi di apprendimento. Mi pare che servano due strumenti oggi: una robusta rete di convalida e di scambio di buone pratiche, e qualche investimento nella ricerca traslazionale che acceleri il trasferimento dal laboratorio alla società. Per esempio la ricerca ha mostrato che il metodo globale per l’apprendimento della lettura non funziona per nulla, e ha anche mostrato perché: magari è il caso di smetterla di infliggerlo agli studenti.
L’innovazione tecnologica in senso lato non mi sembra essere un motivo di preoccupazione, come già detto la tecnologia ha un’evoluzione esponenziale. E questo, si noti, anche se il sistema educativo non è molto diverso da quello di mezzo secolo fa. Dato che l’innovazione viene da persone generalmente istruite, ci sono evidentemente delle cose che le scuole e le università fanno bene. Possono e quindi devono fare meglio, ma per tante ragioni, non solo per inseguire l’obiettivo delle ricadute tecnologiche. Poi uno potrebbe anche dire che ci sia una questione nazionale, che non vi sia abbastanza innovazione tecnologica in Italia. Chi pensa che la salvezza dell’Italia debba venire da scuole più infrastrutturate non ha ben chiaro né quali siano i problemi dell’Italia, né quale siano i punti di forza della scuola. L’Italia ha relativamente pochi impieghi nei settori di punta perché ha un sistema industriale che non fa molta ricerca. Ci sono le solite punte di eccellenza, ma il vostro smartphone non si chiama Bianchini o Moretti ma Apple o Samsung. Che la scuola debba innovare come conseguenza della tecnologia mi sembra una tesi senza fondamento, uno slogan commerciale per introdurre a tappe forzate l’ultima e quasi già obsoleta generazione di tablet nelle classi (Qualcuno si ricorda del netbook? Sono passati solo cinque anni. Negroponte, medialab, Olpc; sarebbe interessante vedere quanti si ricordano oggi di cosa si parlasse).
L’uso delle apparecchiature informatiche spesso si scontra con l’attuale struttura dell’orario scolastico e limita anche la necessaria relazione comunicativa tra i diversi soggetti. Come organizzare la presenza del web nella relazione didattica, per ovviare a questi inconvenienti?
Come premessa, noto che non stiamo più parlando dell’insegnamento dell’informatica, ma dell’uso di schermi nelle classi. Non sono certo un luddista, ma sono per un uso circoscritto nel tempo degli schermi e delle tecnologie informatiche a scuola. Non c’è nessuna ragione di avere studenti co
llegati in permanenza al web con gli occhi incollati a uno schermo. Da un lato si pongono i ben noti e ampiamente documentati problemi di distrazione: le attrattive ludiche e sociali dei gadget e della rete sono praticamente irresistibili, dopotutto sono state progettate per essere irresistibili, e non si capisce perché l’insegnante debba esser messo nella situazione di competere con Justin Bieber o con il video numero duecentosei dello skater che si schianta sullo half pipe. (Uno può distribuire delle pistole cariche agli studenti e poi comprare giubbetti antiproiettile per ridurre gli incidenti, ma è evidente che si tratta di un progetto bizzarro.) D’altro lato non c’è nessuna ragione di far passare tutto dagli schermi, dal latino alla trigonometria, da mane a sera. L’insegnamento richiede strumenti molteplici e duttili, tra cui certo anche strumenti informatici; c’è una biodiversità dell’ecosistema dell’istruzione che non ha senso non rispettare e che andrebbe invece incoraggiata. Come sottolinea bene Gino Roncaglia, c’è una vera e propria sfida della complessità con cui gli individui e le società devono misurarsi, e non si capisce perché privarsi degli strumenti per farlo.
Ma anche qui, la soluzione è facile! Le buone pratiche esistono e sono di semplicissima ed economica attuazione. Un uso circoscritto delle It (Information technology), a seconda dei bisogni didattici, significa avere dei momenti e dei luoghi precisi in cui gli studenti hanno a che fare con il computer. Significa per esempio avere dei tablet che girano per le classi, non un tablet per alunno sempre collegato. Quando serve, lo si usa. E visto che non serve sempre, è inutile averne uno a testa sempre acceso. Si noti (forse ci sono dei dirigenti scolastici che leggono, o dei sottosegretari) che l’aula di informatica, o il carrello di tablet che gira per le classi, hanno due vantaggi economici imparabili: costano una frazione dell’investimento per munire tutti gli studenti di tablet, e permettono quindi di rinnovare il parco informatico di anno in anno. Anche perché nessuno studente vuole il modello dell’anno scorso.
La diffusione e l’uso sistematico degli apparecchi digitali tra le nuove generazioni consente di affermare che le modalità di apprendimento dei cosiddetti nativi digitali richiedono strategie didattiche sostanzialmente diverse da quelle usate in passato?
Ho scritto diffusamente sul doppio mito dei nativi digitali (un’astuta etichetta di marketing, non una categoria antropologica o psicologica) e delle nuove strategie didattiche che dovrebbero modellarsi sui cosiddetti nativi digitali (un modo per scansare i problemi e le complessità dell’apprendimento). L’idea che pervade la discussione pubblica sembra essere la seguente: essendo esposti agli schermi dalla più tenera età, i discenti delle ultime due decadi avrebbero sviluppato nuove forme di conoscenza e di apprendimento, e la scuola dovrebbe tenerne conto, in particolare inserire schermi in modo massiccio anche nelle classi, inventare una pedagogia ludica, basata sulla condivisione e sul mashup, eccetera. Ma l’assunto di base è completamente falso. Non è che l’esposizione precoce e massiccia alla tecnologia ha permesso ai bambini di diventare superintelligenti o diversamente intelligenti o tecnologicamente competenti; è successo esattamente il contrario: la tecnologia si è trasformata, negli ultimi quindici anni, in modo da poter essere usata anche da un bambino.
Riscrivo questa frase perché voglio che il punto sia ben chiaro: non ci sono nuove intelligenze, nuovi stili di apprendimento, cervelli in grado di gestire facilmente il sovraccarico informazionale, mutazioni antropologiche, come conseguenza della semplice e prolungata esposizione agli schermi; è stata invece la tecnologia a trasformarsi, ad adattarsi al cervello di un bambino di quattro anni, ed è solo per questo che i bambini di quattro anni sembrano così bravi con gli schermi. E difatti se si segue il ragionamento dei paladini del nativo digitale, gli ultraottantenni sono oggi dei nativi digitali, dato che se la cavano anche loro benissimo con le nuove tecnologie. Non esistono poteri magici. E difatti studi su studi mostrano che le miracolose competenze dei nativi digitali proprio non ci sono, anzi. Ora, io sono certo favorevole alla semplificazione delle interfacce, e ammiro il design dei nuovi gadget. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’apprendimento. Se invece il problema è che la sovraesposizione agli schermi distrae, toglie il sonno e impedisce la concentrazione, non mi è chiaro in che modo si voglia parlare di “nuove strategie di apprendimento”. Se il problema è questo, la soluzione (ancora una volta!) è semplice, ovvero circoscrivere l’uso degli schermi a scuola. Se il problema dei nostri figli è che mangiano troppi dolci, non ha senso chiamarli “nativi edulcorati” e chiedere che le mense scolastiche soddisfino il loro “ormai inguaribile” appetito per le caramelle.
Vorrei anche fare notare come spesso nella discussione pubblica si finisca rapidamente e neanche tanto surrettiziamente a parlare d’altro. Il tablet ridurrebbe il peso dello zaino (sarà poi vero?): non si sta più parlando di pedagogia, ma di ortopedia. Il manuale online ridurrebbe i costi (sarà poi vero?) e permetterebbe di sviluppare un mercato per l’editoria digitale (disse l’ex-ministro Profumo): non si sta più parlando di qualità dell’istruzione, ma di economia. Se gli studenti e gli insegnanti fossero connessi in permanenza, le famiglie potrebbero sapere che cosa fanno in ogni momento e il Ministero avrebbe delle buone statistiche: non si sta più parlando della situazione di apprendimento, ma di controllo sociale e di misurazione dei comportamenti.
Una presenza organica dell’informatica come può cambiare il rapporto tra docenti e studenti nei diversi ordini di scuola? Quali conseguenze può produrre sulla funzione socializzante della scuola?
Direi che le It qui sono relativamente neutre, nel senso che possono aiutare come possono creare danni. (Anche se mi ha colpito l’osservazione di un genitore incontrato di recente a Nancy: “Ho tenuto mio figlio quindicenne fuori dai social network senza difficoltà, ma a scuola hanno imposto il registro informatico che di fatto è un social network”). La letteratura sugli effetti sociali dei social networks è poco chiara; avvicinano, permettono un negoziato sull’identità personale, creano spazi di sperimentazione a bassa temperatura, dividono, espongono gli utilizzatori a minacce e ricatti, li privano della privacy. Direi che come negli altri casi descritti sopra si ha il diritto di usare una cospicua dose di buon senso. Se tutte le tue interazioni sociali passano da uno schermo, c’è qualcosa che non va. Se un adolescente scambia venti volte al giorno messaggi con sua mamma, ha un problema di autonomia. Ma è vero che la funzione socializzante della scuola meriterebbe un lungo approfondimento, tecnologie o meno.
L’uso del libro e quello di internet presuppongono diversi modi di informarsi e di formarsi una cultura: sono modi inconciliabili o la scuola può insegnare a produrre una sintesi?
Mi sembra che la domanda presupponga un’idea cumulativa della cultura, sostanzialmente come accesso o raccolta di informazioni. Ora, accedere all’informazione non è ancora informarsi, e informarsi non è ancora conoscere. Uno può andare sulla rete a informarsi sull’enunciato del teorema di Pitagora, ma la conoscenza del teorema è qualcosa d’altro: lo conosci veramente quando lo sai dimostrare, lo applichi per risolvere un esercizio, lo sai spiegare a un compagno, eccetera. La cultura richiede non solo accesso ma anche assimilazione delle informazioni che si raccolgono. E richiede che si affilino armi sottili: per vagliare la qualità delle informazioni e per mettere in relazione tra loro le cose che man mano si capiscono. L’ecosistema del libro (su supporto di carta e in assai minor misura su supporto elettronico, si veda il lavoro recente di Naomi Baron) permette, a partire dall’adolescenza, di confrontarsi con questioni complesse che richiedono tempo e sollecitano le capacità argomentative. Il libro non è un deposito di informazioni, è una tecnologia che permette il riesame attento delle argomentazioni, ed è scritto con questo obiettivo in mente. Da questo punto di vista è insuperabile, è un potentissimo attrattore del sistema della formazione. E difatti, non a caso, è da sempre il nemico di tutti i nemici dell’autonomia individuale.
Approfondimenti:
Adults’ Media Use and Attitudes Report 2014
Naomi s. Baron, “Words Onscreen: The Fate of Reading in a Digital World“, Oxford University Press 2015