Un Billy Budd della tastiera
di Franco Pulcini
dal numero di febbraio 2019
Stuart Isacoff
QUANDO IL MONDO SI FERMÒ AD ASCOLTARE
Van Cliburn, il pianista che vinse la Guerra fredda
ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Marco Bertoli,
pp. 256, € 24,
EDT, Torino 2018
I concorsi sono “roba per cavalli”, disse un giorno Béla Bartók, e naturalmente intendeva “più che per pianisti”. Però, a quello spilungone di Van Cliburn, giovane texano dalle chiome erette “color segale matura” – un metro e novantatré di disordinato romanticismo interpretativo – la straordinaria vittoria al Concorso Čajkovskij del 1958 travolse la vita, e non solo per essere arrivato a strimpellare Mezzanotte a Mosca al cospetto di Ronald Reagan e di Michail Gorbačëv. Divenne un essere notturno, posseduto da tic nervosi; gli si accentuarono quel suo carattere di simpatico matto e quell’aura di fragile campione innocente, quasi un melvilliano Billy Budd della tastiera. Altro che una spia “approcciata dai sovietici”, come qualcuno sosteneva, divenne un riccone che chiedeva centoventicinquemila dollari a esibizione e collezionava migliaia di oggetti, di cui non si voleva mai disfare, neppure dei mazzi di fiori rinsecchiti. Quando lo “Sputnik americano” giunse in patria dopo il trionfo moscovita, aveva con sé diciassette valigie di regali. Sua madre gli faceva servire il brodo di pollo in una zuppiera d’argento che era stata della granduchessa Ol’ga Nikolaevna Romanova, figlia dello zar Nicola I, divenuta regina del Württemberg. Caso unico nella storia, venne organizzato per un divo della musica classica un corteo trionfale con pioggia di coriandoli in occasione della sua vittoria: alla parata di Broadway parteciparono centomila persone, dodici bande e un coro di tremila studenti. Unica nota di demerito, per il premiato, l’ingratitudine verso la sua insegnante Rosina Lhévinne, da cui non si fece sentire dopo la clamorosa affermazione, e che divenne comunque in breve tempo l’insegnante di piano più famosa al mondo.
Dato il tipo, le prestazioni di Cliburn erano e divennero, come c’era da aspettarsi, sempre più compromesse da oscillazioni estreme. Alla fine furono disastrose, con uno svenimento. Tra l’altro, sebbene dotato di una proverbiale gentilezza, fin da ragazzo arrivava sempre in ritardo ovunque, soprattutto ai suoi concerti, col pubblico che lo attendeva impaziente per ore. Soggiogato per tutta la vita da una madre morta anzianissima, fu anche vittima di astrologi, sensitivi, imbroglioni, medium e guaritori che lo impasticcavano con intrugli di amfetamine, vitamine, analgesici, steroidi, placenta umana, fino al midollo di bue e alle ghiandole di anguilla elettrica.
Pianista “non intellettuale”, che disdegnava l’ultimo Beethoven, era l’opposto del classicissimo Rudolf Serkin. Irradiava sonorità sontuose, piene. Fraseggiava con anarchica libertà, dimentico del solfeggio e del metronomo. Cantava la musica prima di suonarla. C’era forse un tenore nascosto in lui. La limitatezza del repertorio non stupisce per un pianista che era solito iniziare i suoi recital con l’inno americano, per un divo del pianoforte che era anche un difensore dell’onore nazionale. La critica musicale sovietica Tamara Grum-Grzhimailo parlò di un ispirato menestrello, di un “Raffaello del pianoforte”. Eppure Cliburn era soprattutto un incostante. Aveva istanti di somma grazia, subito abbandonati per altre idee sorprendenti, a capriccio creativo, con curioso istinto agogico. Isacoff instaura un interessante paragone fra i miti Glenn e Van: “Ascoltando Gould si tratteneva il respiro, ascoltando Cliburn si respirava”.
Heinrich Neuhaus, il grande didatta russo che caldeggiò la sua vittoria, di fronte a un interprete originale che, come si suol dire, “mette tutto se stesso nella musica”, commentava “e toglie tutto quello che ci ha messo il compositore…”. Ma per la personalità di Van Cliburn non lo disse, e sostenne che i suoi concerti in Russia erano stati “gli eventi più fenomenali dopo la rivoluzione d’Ottobre” in cui l’americano “eclissò maestri del calibro di Schnabel, Cortot, Rubinstein e Petri”. Frasi buttate lì nel pieno del fanatismo collettivo, dopo aver visto, fra piogge di fiori, un pubblico scalmanato da paura. Frotte di ragazze moscovite erano in preda a un deliquio romantico, che non temperava comunque la proverbiale intraprendenza femminile nazionale. Cliburn era letteralmente terrorizzato e fu costretto a cambiare stanza, perché inseguito da ammiratrici il cui fanatismo assomigliava a quello che di lì a pochi anni avrebbe posseduto le girls britanniche per i Beatles. Una giunse a scivolare nottetempo nella stanza di Van all’Hotel Pekin, senza poter raccogliere i frutti della propria audacia, anche a causa dell’orientamento del pianista, inadatto all’offerta.
In un paese come l’Urss di allora, in cui l’omosessualità era reato grave, farlo vincere fu un gesto rivoluzionario. Specie in quel coacervo di spie e informatori che spaventavano il povero Dmitrij Šostakovič, anche lui terrorizzato, ma in quanto presidente non votante del concorso. Van era sospetto di avere una relazione con Norman Shelter, pianista che invece l’aveva con Svjatoslav Richter, giurato votante e di Van accanito sostenitore, che pianse di gioia e commozione alla sua esibizione finale (la si può vedere su youtube). Nelle piacevoli pagine della cronaca postuma di Isacoff, viene fuori ben sbalzato il carattere ferreo di Richter, già accusato da Kabalevskij di un pianismo “individualistico”, ma indifferente a qualunque pressione (oltre che alle “musichette” di Kabalevskij).
Molto garbate e informate le notizie fornite nel saggio di Isacoff sulla comunità pianistica omosessuale internazionale, tra un Alexis Weissenberg vestito da donna, e – in un’immagine del bellissimo apparato fotografico – Cliburn con James Levine mentre suonano da ragazzini a quattro mani. Oltre al Primo Concerto per piano di Čajkovskij, icona gay, il pianista americano suonava spesso, e splendidamente, la trascrizione di Liszt del Lied Widmung di Schumann, meravigliosa “dedica” d’amore. Malgrado le pressioni, la commissione del concorso non accettò il pari con un sovietico, che era stato individuato in Lev Vlassenko, detto “le migliori ottave del settore socialista”. Persino il filogovernativo Kabalevskij era furiosamente contrario al compromesso. Per non parlare di Ėmil’ Gilel’s. Commenta Isacoff: “I pianisti sovietici suonavano come se ogni nota dovesse essere tenuta sotto stretta sorveglianza”. “Dimostreremo al mondo la nostra imparzialità” concluse Nikita Chruščëv, con notevole astuzia politica, quando permise la vittoria di Cliburn. Non a caso il presidente degli Stati Uniti Eisenhower fu parecchio sornione quando ci fu da ricevere Cliburn: aveva capito bene che era stata una vittoria politica russa.
La vita di Van e il procedere del concorso sono stati ricostruiti dall’autore sulla base di numerosissime interviste. In appendice diversi documenti, tra cui i verbali delle votazioni. L’arguzia e la competenza di Isacoff sono state tradotte in modo magistrale da Marco Bertoli in un creativo italiano. Molto interessanti le notizie su tutti gli altri candidati, tra cui una futura icona del pop americano, quel Neil Sedaka che scriverà Stupid Cupid, canzoncina cantata e singhiozzata dall’avvenente Connie Francis. Secondo classificato al Concorso Čajkovskij, a pari merito con Vlassenko, fu il cinese Liu Shikun, che dava alla giuria l’impressioni di studiare “venticinque ore al giorno”. Era talmente amato dal furoreggiante pubblico moscovita, che per placarlo gli venne concesso un premio speciale: una ciocca di capelli di Liszt. Diverrà in seguito inviso alla moglie di Mao Zedong, e sconterà sette anni di carcere per pretestuose ragioni politiche, tra torture e umiliazioni, tipo pulire latrine, pur essendo stato a un soffio dal portare via il premio a Cliburn. La politica, specie se dittatura, è solita sfruttare o schiacciare l’arte. Sarebbe meglio si limitasse a promuoverla.
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F. Pulcini è direttore editoriale alla Scala