Del tutto gratuito un water in scena
di Elisabetta Fava
Il teatro d’opera è stato fin dalle sue origini il più completo degli spettacoli, in cui musica, parola e azione si uniscono nella cornice visibile di una scena che l’opulenza delle corti sottolineava in modo particolare, ma che neanche il teatro pubblico immaginò mai di poter trascurare o minimizzare. Solo in tempi moderni, però, mette radici l’idea di un regista vero e proprio, che possa garantire l’unità di fondo dello spettacolo, curarne tutte le componenti, preoccuparsi della recitazione dei singoli e dei movimenti delle masse; nel teatro d’opera l’affermazione di questa figura fondamentale non fu facile, ostacolata com’era dalla convinzione che la musica bastasse a se stessa e che imporre al cantante l’onere di una buona recitazione fosse controproducente. Sotto questo profilo oggi le cose sono cambiate molto, e in meglio: l’interesse per la regia d’opera, anzi, è cresciuto al punto tale che spesso si parla più della messinscena che dell’opera medesima: fatto comprensibile, perché oggi le opere si conoscono già prima di andare a teatro, mentre il dato nuovo è proprio l’emozione dello spettacolo. Che però finisce anche per diventare l’elemento imprevedibile, qualche volta provvidenziale e chiarificatore di trame e partiture non facili, altre volte invece prevaricatorio nei confronti del soggetto stesso. Il fronte critico è spesso diviso in modo pregiudiziale: chi vuole la regia modernizzata si mostrerà insofferente alla regia “tradizionale”, e chi propende per quest’ultima tenderà a stroncare ogni tentativo di rivisitazione.
Il problema è troppo sfumato e complesso per poterlo risolvere nello spazio di queste righe; ma si possono proporre alcune riflessioni trasversali ai due “partiti”, dal punto di vista di chi va all’opera innanzitutto per sentire, desiderando vedere qualcosa in armonia con ciò che ascolta. Questo non significa affatto che si debba sacrificare lo spettacolo alla partitura o che lo spettacolo non sia importante (altrimenti preferiremmo tutti un buon cd al pellegrinaggio nei vari teatri d’opera): ma per essere importante non deve esistere “a dispetto” della partitura, bensì in virtù d’essa. E ci sono momenti focali della partitura che lo spettacolo non deve intaccare: la meravigliosa, spiritosissima scena della seggiola nelle Nozze di Figaro ha già un regista, e questo regista è Mozart; per rendere bene il passo non resta che riprodurlo fedelmente, rinunciando a spiritosaggini superflue. Il sacco in cui Sparafucile occulta il cadavere di Gilda ha da essere un sacco, e dentro ha da esservi Gilda, come vuole Verdi; usare una cassapanca (Torino, Fabio Banfo) o mostrare la vittima che arriva in scena sulle proprie gambe (Palermo, John Turturro) non è un’invenzione, ma un errore che rende parodistico un momento tragico e cruciale della vicenda. Nel duello fra Don Giovanni e il Commendatore è Don Giovanni a dover ferire il Commendatore, e non il contrario (come accade invece nella regia di Claus Guth per Salisburgo); e non deve nemmeno ferirlo a tradimento (Torino, Michele Placido), ma in regolare duello; perché altrimenti si falsano o i presupposti della vicenda oppure il suo personaggio principale.
Questi sono singoli punti il cui travisamento è dannoso, ma in qualche modo circoscritto. Peggio succede, però, quando alla partitura (intesa sempre come somma inscindibile di testo e musica) viene sovrapposta un’interpretazione che col pretesto di modernizzarla in realtà la fraintende. Nel suo Flauto magico cinematografico Kenneth Branagh ricolloca la favola mozartiana in luoghi diversi da quelli immaginati dagli autori: immagina dietro a Sarastro e Astrifiammante guerre e sofferenze; ma nulla di tutto ciò va contro la musica, i temperamenti sono rispettati, così come i contrasti, interiori ed esteriori. Analoga operazione attualizzante andò in scena qualche anno fa a Salisburgo con la regia di Jens-Daniel Herzog: in quel caso Sarastro era il direttore di un manicomio criminale, disegnato come uno scienziato pazzo uscito dalla penna di Dürrenmatt. Qui l’attualizzazione distorceva un punto chiave del libretto, facendo del saggio e nobile Sarastro un pericoloso maniaco; dietro all’operazione, probabilmente il desiderio di mostrarsi colti e spiazzare l’ignaro spettatore rivelandogli che il libretto di Schikaneder presenta alcune contraddizioni, la cui ragione non è mai stata del tutto chiarita. Quest’eccesso interpretativo è uno dei rischi peggiori: come nella Carmen di Emma Dante, in cui Micaela compare nerovestita, tra un profluvio di simboli religiosi che dovrebbero denotarne l’oscurantistica bigotteria; ma Micaela non è affatto una madonnina infilzata e sessuofobica: è una donna risoluta e coraggiosa, che per ritrovare il suo uomo va da sola prima ad affrontare un reggimento, poi a inerpicarsi per gole montane scoscese, che la fanno tremare, ma non arretrare.
Un bell’esempio di trasposizione moderna dell’antico si è visto alla Staatsoper di Berlino con King Arthur nella regia di Sven-Erich Bechtolf e Julian Crouch: qui però era la condizione di masque, ossia di opera inframmezzata da dialoghi frequenti e ampi, a consentire di rimodulare gli stessi, facendo dell’intera vicenda il racconto fatto a un bambino, che lo guarda con occhi partecipi e stupiti, e conquista anche noi a una storia altrimenti davvero un po’ lontana e scopertamente celebrativa. Più dubbio il risultato dell’attualizzazione di Tristan und Isolde da parte di Claus Guth in una regia che ha pure alcuni momenti felici (il cercarsi dei protagonisti tra la folla al principio del secondo atto); ma non è perdonabile che un momento cruciale come quello in cui Isolde dovrebbe spegnere la torcia, gesto simbolico che evoca una notte carica di senso e di desiderio, venga annichilito dalla banalità – oltretutto pochissimo visibile in scena – del clic di un interruttore che spegne l’abat-jour; per non dire di un terzo atto senza il mare: che non è ammennicolo paesaggistico facoltativo, ma fulcro della partitura, metafora del viaggio e dell’infinito, oltre che luogo dei sogni di Tristano, perché dal mare è atteso l’arrivo di Isotta. Se splendida era la resa di Káťa Kabanová nella regia di Robert Carsen, che coglie la presenza fondamentale dell’acqua e del fiume nella partitura di Janacek e vi immerge letteralmente la scena e il villaggio, del tutto fuori luogo era invece la trasposizione del Ballo in maschera da parte di Damiano Michieletto in un moderno luogo distopico che non trova riscontro nel testo: del tutto gratuito un water in scena, davvero un grado zero della dissacrazione fine a se stessa; e sbagliato, perché fondato sull’incomprensione della scena verdiana e del senso della partitura, il trasferimento della grande scena di Amelia, che dovrebbe trovarsi sola e spaventata in un luogo sinistro e selvaggio, in una periferia urbana, a uno svincolo autostradale popolato da viados e ladri: dove mai potrà crescere in tale posto inquinatissimo e cementificato la rara piantina di cui Amelia deve distillare il succo per togliersi dalla mente l’amato Riccardo? E come sentire empatia verso una stupida che in tale luogo si presenta invisonata e ingioiellata, rendendosi oggetto di una pronta e meritatissima rapina?
Non urtava invece contro il senso della vicenda la regia di Carmen fatta negli ultimi due anni a Bregenz: che è una Seebühne, un palcoscenico sul lago, e quindi inventa a ogni spettacolo una lettura originale e “acquatica”. In questo caso (cito soltanto questo particolare, ma la regia meriterebbe più spazio) Carmen muore annegata e non pugnalata, ma il cambiamento non produce danni; li produceva invece la bizzarra idea di Harry Kupfer di far morire Salome (Berlino, 2007) non sotto gli scudi, bensì per un colpo di rivoltella. Perché in questo caso il cambiamento non funziona? Perché Strauss inventa sotto la morte di Salome una musica che non corrisponde alla rapidità del colpo di pistola, ma che raffigura invece la violenza prolungata sul corpo della vittima: di cui sentiamo la rivolta, gli spasimi di lotta, le grida metaforizzate nello stridere dei fiati. Nella regia di Dmitrij Černjakov per la Scala, invece, il gesto di Alfredo Germont che, credendosi abbandonato da Violetta, si mette ad affettare rabbiosamente le carote nella cucina di casa, non andava affatto contro la musica: esprimeva tutta la furia compressa di quel momento, senza falsare lo stato d’animo del personaggio.
Il dibattito andrebbe quindi riportato su un piano di attenzione alla partitura, e non di sterile opposizione fra tradizione e modernizzazione. Lo splendido Ratto dal serraglio con regia di Giorgio Strehler ripreso nel giugno 2017 alla Scala suonava ancora pienamente attuale; e nella sua efficacissima essenzialità è servito fra l’altro a mostrare, nell’impietoso confronto, un punto debole di troppe regie di oggi, ossia l’horror vacui per cui il palcoscenico viene spesso gremito di figuranti, doppi, testimoni, in molti casi non solo inutili, ma nocivi: a Monaco di Baviera un finale della Manon Lescaut (due amanti soli e disperati nel deserto) era deturpato, nella regia di Andreas Homoki del 2002, da decine di figuranti vestiti da spettatori d’opera con tanto di programma di sala che assistevano alla morte per sfinimento e inedia della povera Manon; la quale per giunta esalava il suo disperato “voglio il tuo volto vicino al mio” allontanandosi dal suo Des Grieux, e prima di morire aveva messo l’intero palcoscenico tra sé e lui. Un altro esempio ammirevole di essenzialità è invece l’Elektra straussiana di Patrice Chéreau per Aix-en-Provence, ultimo spettacolo del grande regista che ha poi giustamente circolato molto, da poco ripreso anche alla Scala.
Non parliamo infine dell’abitudine ormai quasi costante di eseguire le ouvertures d’opera a sipario alzato e renderle così più agite che sentite: come se la musica da sola non bastasse a farci entrare nel clima dell’azione. Forse davvero non basta più alle orecchie dell’ascoltatore contemporaneo, logorate dai troppi ascolti e dalla musica come rumore di fondo; ma compito di un buono spettacolo d’opera, dove occhi e orecchio, cervello e cuore devono essere coinvolti in pari grado, è proprio aiutare nel ricupero di questa dimensione: non prevaricare sul suono, ma aiutarlo a prendere senso in ogni momento. Non si chiede quindi affatto alla regia di passare inosservata, anzi: ma di farsi ricordare per come ha saputo far comprendere un personaggio, un sottinteso, una situazione; e non per averli ostentatamente e deliberatamente manipolati, non importa se in chiave moderna o antichizzante.
elisabetta.fava@unito.it
E. Fava insegna storia e critica della musica all’Università di Torino