Oltre i bigotti anni cinquanta e gli spudorati anni sessanta
di Fabio Cremonesi
Malgrado un noto proverbio inglese reciti Two’s company, three’s a crowd (“Due fanno una coppia, tre fanno una folla”, giusto per essere un po’ infedele all’originale!), credo che per un traduttore essere chiamato a ritradurre opere di narrativa già edite in italiano sia una delle esperienze più stimolanti. Forse è semplicemente l’idea che a essere in due si è meno intimiditi di fronte all’autore: sì, capita anche questo nella “rocambolesca” vita di un traduttore. Io per esempio sono terrorizzato al pensiero che, dopo In Gratitudine, uscito l’anno scorso (per NN), mi aspettino altre due opere di Jenny Diski, eppure sapere che una delle due è una ritraduzione mi conforta assai.
O forse a essere seducente è proprio l’idea che, di fronte a un dubbio sulla bontà di una soluzione, ci sia la possibilità di allearsi di volta in volta con l’autore o con il precedente traduttore per ottenere una “maggioranza numerica” impossibile da raggiungere quando si è a tu per tu con il solo autore (ma come? – si obietterà – l’ultima parola spetta sempre all’autore, il che è vero solo se non si considera che l’autore non sta parlando in italiano, quindi a volte, con dolcezza e senza forzature, al traduttore tocca convincerlo della bontà delle proprie scelte traduttive).
Perché si ritraduce?
Ma a questo punto mi pare il caso di fare un passo indietro per la domanda che mi viene rivolta più spesso quando mi capita di parlare di ritraduzioni: perché si ritraduce?
Ovviamente le risposte sono infinite e disparate, da quella più ovvia – non tutte le traduzioni sono buone traduzioni – ad altre più sfuggenti, per esempio che le traduzioni invecchiano, come è facile constatare per esempio leggendo una traduzione degli anni trenta di un romanzo ottocentesco; ci sarebbe poi da fare un discorso sugli standard traduttivi di oggi, che, contrariamente ai luoghi comuni, sono molto più elevati di quelli di un tempo: la storica traduzione di Bice Giachetti-Sorteni di La montagna incantata di Thomas Mann, per citare un caso notissimo, era un’eccellente traduzione per i suoi tempi, ma oggi lo standard è quello definito dalla magistrale versione di Renata Colorni, che tra l’altro fin dal titolo – La montagna magica – corregge quello che oggi è giustamente considerato un errore madornale. Questo aumentare degli standard ha, peraltro, delle motivazioni molto concrete: sia perché la platea dei possibili traduttori tra cui le case editrici scelgono si è enormemente ampliata rispetto al passato, sia perché i traduttori oggi dispongono di una risorsa formidabile come il web, inteso come immenso archivio di informazioni ma anche come “intelligenza collettiva”. Inoltre, più prosaicamente, oggi come oggi qualunque traduttore ha la possibilità di mandare una e-mail o di telefonare per pochi spiccioli all’altro capo del mondo.
In altri casi a far optare per una nuova traduzione è la volontà dell’editore di dare un’unica voce all’intera produzione di un autore (è il caso di Canto della pianura di Kent Haruf, ritradotto dal sottoscritto per NN, dopo che in Rizzoli era apparsa la bella traduzione di Fabrizio Ascari). Altre volte ancora la ritraduzione serve anche a restituire al lettore nella sua integrità un testo a suo tempo mutilato dalla censura o, come nel caso dello splendido E il vento disperse la nebbia di James Leo Herlihy, appena uscito per Centauria, dall’autocensura (redazionale o forse operata dal traduttore stesso, chissà) della prima edizione italiana. Nella precedente edizione del 1960, tanto per capirci, era stato omesso un paragrafo intero solo perché conteneva la parola “inguine”. La censura in questo caso appare particolarmente bizzarra in quanto il romanzo tratta dell’educazione sentimentale di un adolescente di provincia in un momento di svolta nella storia degli Stati Uniti: il passaggio tra i bigotti, puritani anni cinquanta e i libertari, “spudorati” anni sessanta: in un contesto del genere, togliere ogni riferimento alla fisicità dei personaggi significa depotenziarlo fino a renderlo quasi incomprensibile, reticente laddove l’originale è conturbante, frigido laddove dovrebbe risultare provocante.
Diversi approcci e modus operandi del ritradurre
Poche cose come la prassi della ritraduzione danno la misura di quanto tradurre sia artigianato, non arte – visto nulla viene creato, ma solo trasformato o ricreato – e non scienza, che il Treccani definisce come “insieme di conoscenze ordinate e coerenti, organizzate logicamente a partire da principî fissati univocamente e ottenute con metodologie rigorose”, ossia qualcosa di ben diverso dal battere e ribattere per approssimazioni successive, che è l’essenza di ciò che si fa nell’officina del traduttore. Per chiarire meglio il senso di questa affermazione basta vedere un po’ più da vicino gli approcci che si possono adottare in tale prassi. Ai due estremi si trova chi utilizza la traduzione preesistente come palinsesto su cui riscrivere, se non altro per risparmiarsi almeno in parte lavoro dattilografico e, all’estremo opposto, chi si limita a ignorare completamente la prima traduzione (lo so, è difficile da credere, eppure mi è stato detto da più di un collega). In mezzo vi sono i due approcci meno radicali: il primo è la consultazione puntuale in corso d’opera di singoli passi su cui il traduttore ha particolari dubbi o difficoltà, il secondo consiste nel concludere la prima stesura per poi operare un raffronto parola per parola con la precedente traduzione.
Personalmente propendo per questo secondo modus operandi, innanzi tutto perché mi aiuta a individuare eventuali sviste (la riga di testo saltata dopo una telefonata particolarmente lunga è un’insidia che ogni collega conosce bene!), snellendo al contempo l’attività di revisione che spetta alla redazione. Ma ci sono motivi bene più corposi che mi spingono a propendere per questo modo di procedere: la possibilità di dare conto in qualche modo della “storia” editoriale di un testo, nonché, in qualche caso circoscritto, anche di “riciclare” singole soluzioni (traducenti, come si dice in gergo) migliori di quelle individuate da me in prima stesura. Questo in un’ottica di servizio al lettore, quello di offrirgli “la miglior traduzione possibile” (lo so, detto così suona oltremodo naïf, ma sono certo che gli avveduti lettori dell’“Indice” capiranno ciò che intendo). Immagino che questo sia l’approccio più diffuso, come mi è stato confermato da un certo numero di colleghi con cui mi è capitato di confrontarmi nel corso del tempo, eppure non è affatto esente da critiche: una volta mi sono sentito dare del plagiario dall’editor di una casa editrice, che mi ha persino imposto di fare un confronto tra le due traduzioni con l’apposita funzione di word per sostituire ogni parola che fosse risultata uguale! Certo, è stato piacevole rivivere il frisson che provavo da ragazzino quando, per non farmi beccare dal professore, cambiavo le parole nella versione di greco che avevo appena copiato da Arianna, la mia compagna di banco, eppure in cuor mio resto convinto che il testo poi andato in stampa sia sensibilmente peggiore di quello che avevo proposto prendendo a prestito, in un limitatissimo numero di casi, le soluzioni approntate da chi si era cimentato prima di me su quello stesso romanzo.
Ovviamente chi ritraduce un testo nella maggior parte dei casi ha anche un altro vantaggio nei confronti di chi lo ha preceduto: il sapere meglio “dove stava andando a parare” un determinato autore. Cerco di chiarire questo concetto prendendo di nuovo a esempio Canto della pianura: l’autore, Kent Haruf, ha iniziato a scrivere piuttosto tardi, oltre i quaranta, e ha scritto appena sei romanzi in un arco di oltre trent’anni, fino alla sua morte avvenuta alla fine del 2014. Lasciando da parte il postumo Le nostre anime di notte, scritto in pochi mesi sotto la pressione della diagnosi di una malattia terminale, che ha caratteristiche stilistiche e di scrittura molto condizionate da questa urgenza, l’intero suo corpus letterario ha un’evoluzione evidentissima in una direzione univoca: quella di asciugare sempre di più l’aggettivazione, di ricorrere a un lessico sempre più limitato, in una sorta di ascesi verso l’essenziale che potremmo anche interpretare come segno di fiducia crescente non solo nelle proprie risorse di scrittore, ma anche nella capacità del lettore di immaginare in dettaglio tutto quello che il testo si limita a evocare. Ecco, da questo punto di vista “evolutivo”, io nel 2014 ho avuto un grande vantaggio rispetto al collega che aveva tradotto questo stesso romanzo nel 2000: alla luce della direzione presa dallo scrittore nelle sue opere successive, ho potuto dare maggiore evidenza a una serie di elementi stilistici e strutturali – l’interpunzione, innanzi tutto – che agli occhi del precedente traduttore potevano essere apparsi come accidentali o non particolarmente significativi.
Naturalmente un discorso a parte, e di ben altra ampiezza, meriterebbe la questione della ritraduzione dei classici, a cui ho già rapidamente accennato poc’anzi a proposito de La montagna incantata / magica di Thomas Mann: perché ritradurre un classico? A tutti i motivi brevemente esposti in queste righe se ne aggiunge uno fondamentale. Se è vero che, per citare l’arcinota definizione di Italo Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, va da sé che la ritraduzione di un classico è come una nuova interpretazione di una sinfonia di Brahms: si tratta di un’operazione che va intrapresa con la dovuta competenza e cautela, ma è sempre legittima quando è finalizzata a far luce su aspetti del testo rimasti in ombra nelle traduzioni precedenti o a rendere più agevole (direi anche più gratificante) per un lettore di oggi lo sforzo di mediazione culturale che è comunque necessario quando si affronta la lettura di un classico.
fabio_cremonesi@hotmail.it
F Cremonesi è traduttore