Dal legname al cinema
recensione di Santina Mobiglia
dal numero di novembre 2018
Giorgio Caponetti
IL GRANDE GUALINO
Vita e avventure di un uomo del Novecento
pp. 435, € 17
Utet, Novara 2018
Dopo il fortunato Quando l’automobile uccise la cavalleria (Marcos y Marcos, 2011) giunto ormai alla nona ristampa, Giorgio Caponetti continua ad esplorare in chiave romanzesca gli anni e ambienti della Torino del primo Novecento, quando nuove figure di una emergente più aggressiva imprenditoria presero il sopravvento sulla vecchia aristocrazia sabauda. Là si trattava della prepotente ascesa di Giovanni Agnelli ai vertici della Fiat ai danni del nobile sognatore Emanuele Bricherasio, che era stato il fondatore dell’azienda nel 1899 e sarebbe morto poco dopo in circostanze misteriose. Qui ripercorriamo la vertiginosa avventura di un altro protagonista dell’epoca, fra turbinosi successi e cadute clamorose. E Agnelli compare anche qui: tra i due ci fu un periodo di collaborazione, di interessi e favori reciproci, bruscamente chiuso nel 1927 per strategie divergenti negli affari e forse anche rispetto alle politiche del regime fascista.
Ma chi era Riccardo Gualino? e perché grande? alla maniera del grande Gatsby cui lo associa ironicamente la moglie leggendo Fitzgerald? Senza dubbio un personaggio fuori misura: finanziere spregiudicato, imprenditore pionieristico e visionario, affarista cinico e spericolato e insieme mecenate grandioso nella promozione di tutte le arti, musica, danza, pittura, in cui ebbe un ruolo decisivo l’incontro con il giovane Lionello Venturi per l’affinamento del gusto e l’apertura al moderno. E la cifra della modernità, la curiosità unita alla capacità di captare i segni di novità dei tempi in tutti i campi della sua attività – quasi in contrappunto all’assoluta stabilità della vita familiare accanto alla moglie Cesarina, partecipe alla pari, anzi spesso in prima fila nelle scelte artistiche – appare il tratto unificante della multiforme e in parte sfuggente figura che prende corpo nelle pagine del libro. Una biografia romanzata dove l’invenzione è peraltro tutta affidata al libero intreccio narrativo di una vicenda in cui sono “veri i personaggi, veri i luoghi, veri gli avvenimenti”, come sottolinea nella premessa l’autore. Che non esita a incrociare con mano sicura i modi del feuilleton allo stile del reportage nel mettere in scena, per rapide sequenze, flashback/flashforward e fitti dialoghi quasi cinematografici, una storia che cattura il lettore lungo i fili di una densa tessitura di notizie e documenti attinti da archivi, testimonianze, parziali memorie scritte dallo stesso Gualino e bibliografia attinente citata in appendice.
Comincia con il legname e il cemento l’ascesa che avrebbe portato Gualino nel 1925 tra i cinque più ricchi d’Italia. Aveva persino avviato il cantiere di una nuova Pietroburgo ricalcata su Manhattan alla foce della Neva, mandato all’aria dalla rivoluzione d’ottobre. Fiutò la fortuna del carbone durante la guerra e lo fece importare dall’America, per poi passare alle fibre artificiali e alla chimica operando la fusione della Rumianca alla Snia Viscosa, circondata nella periferia torinese dal villaggio-modello per tutti i dipendenti. E poi ancora al cioccolato e dolciumi, alla creazione della prima società di radiodiffusione in Italia. Intanto scalava la finanza europea e comprava stabilimenti in Francia, faceva investimenti in America. Non si concentrò mai su un unico settore produttivo: acquisire, dismettere, reinvestire, spesso scommettere a debito era il suo stile. Un vero operatore globale cui stava stretta l’autarchia di Mussolini, verso il quale nutriva una ricambiata diffidenza e non mancò, richiesto di un parere, di esprimergli in una lettera le sue critiche a proposito della lira a “quota 90”. Tutti i nodi vennero al pettine nella crisi del ’29, dopo gli scandali legati al crack fragoroso della banca creata da Gualino a Parigi con un socio francese, quando il duce lo fece puntualmente arrestare e spedire al confino a Lipari, dove rimase per un anno. Con la liquidazione dei beni e l’interdizione da ogni attività fu il momento più critico della sua carriera, ma presto si risollevò grazie alle cospicue risorse all’estero. Tramite fiduciari fondò nel 1935 la compagnia cinematografica Lux, dalla simbologia vagamente massonica, in prima fila nella produzione di film, fino a Riso amaro e Senso nel dopoguerra. Da allora visse tra Roma e Firenze, il suo stile imprenditoriale si fece più oculato e il suo antifascismo, ormai esplicito, si tradusse in un apprezzato sostegno finanziario alla Resistenza. Infine a quasi ottant’anni, nel 1958, intuì il futuro della plastica e scommise sul pvc. All’interesse per il cinema come nuova espressione artistica non era estranea l’influenza di Giacomo Debenedetti, uno degli intellettuali che frequentavano da tempo casa Gualino, biellese di origine come lui, tra i primi a guardare con attenzione alle funzioni e potenzialità della “settima arte”. L’impegno in questo campo era anche un modo per mantenere un legame con il mondo della cultura, con i ricordi e le amicizie mai venute meno dell’irripetibile fervore artistico che aveva animato negli anni venti, intorno a Casorati e Casella, al cenacolo di pittori come i Sei di Torino e alle serate di musica e danza nel teatrino di via Galliari, allestito in un’ala di casa sua, prima dell’acquisto del grande Teatro di Torino, rapidamente ristrutturato, che fecero della città un polo all’avanguardia per la circolazione delle nuove tendenze artistiche: dalle musiche di Stravinskij ai balletti di Djagilev o alle coreografie espressioniste, alle prime jazz band e al cinema surrealista. E poi le letture poetiche di Emma Gramatica, le rappresentazioni teatrali di Pirandello, ospite dei Gualino con Marta Abba e tutta la compagnia di Ruggero Ruggeri. E l’arrivo della prima messa in scena italiana dell’Opera da tre soldi di Brecht e Weill, nell’allestimento di allora con il titolo La veglia dei lestofanti, che avrà forse fatto sorridere Gualino per la scintillante irrisione dei banchieri. Tra il pubblico di quelle stagioni si potevano incontrare Sibilla Aleramo, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, l’ancora studente Massimo Mila e il giovane Piero Gobetti, assiduo frequentatore finché non fu costretto dalle persecuzioni fasciste a lasciare la città, o nei primi anni persino Margherita Sarfatti, che non mancava di arrivare puntualmente da Milano.
A Torino il nome di Gualino resta legato alla villa in collina e al palazzo per gli uffici in città, due perfetti esempi di architettura razionalista, in cui non fece in tempo a insediarsi per il sopraggiunto tracollo, entrambi confiscati come la straordinaria collezione di dipinti, da Giotto a Modigliani, raccolta sotto la guida sapiente di Lionello Venturi, ora conservata presso la Galleria Sabauda. Tra le molte residenze affidate ad architetti di fama, i due scenografici castelli sul mare di Sestri Levante sono diventati un Grand Hotel, mentre quello neogotico un po’ kitsch di Cereseto, progettato con Cesarina quando si sposarono, finì abbandonato al degrado. Se il Gualino mecenate resta magistralmente fissato nel ritratto dal sapore neorinascimentale di Casorati, esposto alla Biennale di Venezia nel 1924, il suo complesso profilo biografico, di attore solitario ma con una vasta rete di relazioni, offre uno spaccato d’epoca istruttivo per la storia delle élite economiche e culturali italiane, nei loro intrecci e ambizioni. Con suggestivi spunti, al di là del libro, per interrogarne le continuità e varianti del nostro tempo, sino alle declinazioni mediatiche e pop postnovecentesche.
santina.mobiglia@gmail.com
S Mobiglia è saggista e traduttrice