intervista a Franco Cordelli di Massimo Castiglioni
Cosa rappresenta per te questa ripubblicazione, e perché soprattutto Procida e Guerre lontane?
Avevo in mente di ripubblicare tutti i miei romanzi, che sono nove. È un pensiero che si è affacciato alla fine del 2016, dopo che Una sostanza sottile aveva fatto il suo corso e pensavo di non aver voglia di scrivere un altro romanzo. Ho iniziato a riflettere sulla possibilità di dare ai romanzi esistenti una fisionomia precisa. Un giorno Andrea Caterini mi ha fatto questa proposta di ripubblicazione per Theoria e ho accettato senza pensarci. Tutto nasce da un rapporto amicale, quindi. Procida lo voleva Caterini, per sua predilezione, ed è legato a una sua idea che ha espresso nella postfazione. Guerre lontane è più per una questione editoriale che per un pensiero preciso.
Guerre lontane è una specie di riscrittura. Si parte dallo smarrimento di un quaderno e il testo è un tentativo di riscrittura: siamo dopo qualcosa. C’è inoltre la morte di un personaggio, e siamo ancora dopo qualcosa. Il narratore riscrive tutto dopo aver perduto qualcosa, dopo aver perduto una forma. A cosa allude questo essere dopo?
Credo che l’idea sia quella di un testo germinale, potenziale, oscuramente ideale che è dietro ogni scrittura di questo tipo, cioè ogni scrittura che abbia una forma, per quanto aperta, alla fine chiusa. Proprio il fatto che il romanzo per definizione sia una forma chiusa, l’idea di un testo precedente, così come l’ho descritto, è una specie di leva di Archimede che ci introduce all’ipotesi – e anche alla realtà – che dietro ogni testo ci sia un altro testo. Anche la forma più chiusa in realtà ha la possibilità di essere una forma aperta. Prospettare l’idea di potenzialità, come se un testo potesse essere sempre riscritto. Mi è capitato questo, per esempio: Procida fu pubblicato nel 1973 ed è un po’ diverso da quello scritto in origine. Nel 2006, nella ristampa, ho ripristinato, per modo di dire, il testo originario. Ne ho ripristinato l’assetto diaristico e ho riscritto delle cose. Mi è capitato recentemente di riaprire questa nuova versione di Procida, appena ripubblicata da Theoria, e mi sono detto peccato che io non abbia prestato attenzione, perché, se lo avessi fatto, anche stavolta l’avrei un po’ riscritto, magari poco. Questo per dire che nel testo c’è l’essere ma anche il divenire. Un testo è sempre un testo in divenire.
Quindi Guerre lontane lo intendi anche alla luce di questo? La letteratura sembra così un gioco infinito, in continuo divenire.
Sì, poi di fatto non è così. Uno potrebbe anche vivere di rendita in questo senso: pubblica un libro e poi, per tutta la vita, ogni cinque o dieci anni, lo riscrive, ma non penso che lo abbia mai fatto nessuno. Però teoricamente è possibile. Oppure si potrebbe fare con più di un libro: romanzi che sono stati riscritti più di una volta. Riscrivere più di una volta, nella mia mente, però, non è l’idea della bella forma da perseguire: è il demone della precisione, dell’esattezza; è l’avvicinarsi il più possibile a una verità, che non c’è, ovviamente. Per questo il testo può essere riscritto all’infinito, potenzialmente. Questo è diverso dal perseguire una bella forma.
Mi affascina l’aggettivo “lontane” del titolo. Abbiamo parlato di testi precedenti e di testi che non si chiudono: la lontananza va intesa anche in questo senso? Nell’ottica del divenire continuo, la lontananza va vista come distanza dalla letteratura?
Il titolo Guerre lontane l’ho usato altre volte. Credo sia il titolo di un racconto scritto da un me poco più che ventenne, nel 1965 o 1966, ed è legato a un sentimento preciso: alla Guerra del Vietnam. Quel conflitto occupava molto l’attenzione della mia generazione, chiaramente in chiave antimperialista e antiamericana. La parola “lontane” aveva un triplo valore: la guerra era geograficamente lontana e quindi eravamo tagliati fuori. Non che avessimo il desiderio di partecipare a una guerra, ma si aveva la sensazione che le guerre fossero finite, quindi lontane (un sentimento da società del benessere, tipico degli anni Sessanta). Lontana poi perché gli americani erano stati nostri alleati nella Seconda Guerra Mondiale e con la Guerra del Vietnam erano avvertiti come nemici, quindi si erano allontanati. Poi la lontananza era anche temporale: c’era un sentimento di lontananza dalla storia, come se il tempo ci avesse espropriati della storia. Queste sono tutte idee fasulle, legate alla contingenza di quel tempo, solo che all’epoca le sentivamo come assolute.
Ciò di cui tu parli è un altro tipo di lontananza, che all’epoca non credo fosse nella mia testa. Oggi mi ritengo fortunato ad aver usato quell’aggettivo, perché da molto tempo c’è l’idea di una lontananza da questa forma che ha accompagnato la mia vita, la forma romanzo, tant’è che una mia raccolta di saggi e articoli si intitola Lontano dal romanzo. C’era questo sentimento della lontananza dal romanzo. Ma è ancora di più. Come se qualunque materia, nel momento in cui diventa forma, si allontani. Noi pensiamo sempre di aver fissato una materia, ma se la guardiamo da vicino (o da lontano) vediamo quanto essa sia inattuale, potenziale, soggetta alla possibilità di una modifica, di una correzione, come la vita. In realtà, nel fondo, c’è il pensiero che la forma romanzo sia la cosa che meglio, e in modo meno lontano, possa esprimere il nostro sentimento della vita. Io sono stato accusato più volte di aver detto che il romanzo è morto (e non l’ho mai detto). Diciamo che il mio sentimento dominante della forma romanzo è che sia sempre sull’orlo del precipizio come lo è la vita. Il romanzo può costantemente sfuggirci dalle mani.
Ma nel contesto in cui viviamo senti ancora il bisogno di scrivere romanzi, visto che si tratta di una forma sull’orlo del precipizio?
I romanzi non esistono solo in quanto opere che scrivi, esistono anche in quanto opere da leggere. In quanto lettore sei anche un po’ scrittore del romanzo che stai leggendo. Certo, non si può trascurare il fatto che con l’avvento dell’alfabetizzazione mondiale prima e dell’informatica poi (che facilita e velocizza le operazioni di scrittura) si è arrivati a una moltiplicazione esponenziale dei romanzi pubblicati. Si può avere la sensazione di una morte per saturazione. Ma è una metafora, non una vera morte; si potrebbe addirittura vederla come un eccesso di vita. Sicuramente è diventato più difficile scoprire i romanzi davvero buoni e innovativi, quelli che modificano la forma romanzo e che ci dicono qualcosa che non era mai stato detto prima. Così come sono cresciute molte cose dovrebbe crescere anche la longevità, il tempo per scoprire romanzi (anche se forse il tempo in più non lo impiegheremmo esclusivamente per leggere).
Quando hai pubblicato La democrazia magica, nel 1997, parlavi di “ossessione del romanzo”. C’è ancora questa ossessione?
La parola “ossessione” non mi piace più. Col passare del tempo sono andato selezionando le mie letture: ho smesso quasi del tutto di leggere poesia e leggo molta meno saggistica (salvo poca saggistica letteraria). Leggo quasi unicamente romanzi. Mi impressiona che la selezione sia avvenuta in questo modo e di non essermi stancato. Continuo a cercare (non perché abbia qualche finalità) nel mare magnum del romanzo contemporaneo le opere che per me siano fonte di vitalità, arricchimento del mio sentimento della vita. Più che ossessione direi che è la forma che mi accompagna.
Sembra ci sia un maggiore senso di tranquillità rispetto all’ossessione del passato.
Sicuramente c’è più tranquillità. Il romanzo, parafrasando Pasternak, è “mia sorella, mia sposa”. Come sorella c’è un elemento di tranquillità, come sposa un po’ meno: come in tutti i matrimoni ci sono forme conflittuali, insofferenze, irritazioni. Tutte le volte che fallisci l’approccio a un libro che leggi c’è un senso di rivolta. Ci sono anche momenti diversi, di stupore. Giovani scrittori, che prima non si conoscevano, che producono libri che sembrano davvero nuovi, sono sicuramente una consolazione, un beneficio, non solo per me ma per tutti, anche per quelli che non li leggono, perché esistono, stanno lì e trasmettono a loro insaputa.
Procida e Guerre lontane sono romanzi diversi ma con una somiglianza importante: hanno una forma diaristica, seppur gestita, appunto, in maniera diversa. Cosa ti attraeva di quella forma e qual è la differenza tra i due libri?
L’idea di quella forma diaristica era “ricominciamo da capo”. Quando mi sono messo a scrivere Procida l’idea era quella di scrivere in una forma elementare, e la forma elementare è quella diaristica. Che poi è anche il modo più facile di scrivere un romanzo, almeno da un punto di vista esteriore, psico-fisico: se voglio scrivere un diario di trenta giorni e scrivo una pagina al giorno ecco che in un mese ho scritto il mio romanzo. Questa “umiltà” in realtà è una forma di scetticismo e di disperazione rispetto alla propria capacità di riuscire a racchiudere un divenire in una forma (e anche il romanzo più statico rappresenta un divenire). Rispetto allo scetticismo e alla disperazione la forma diario mi ha aiutato molto e mi ha accompagnato. Poi io, in realtà, ho scritto solo due romanzi con una vera forma diario, ovvero i primi due (Procida e Le forze in campo). Guerre lontane ce l’ha a modo suo. Ho mantenuto questo pensiero diaristico cercando però di renderlo meno clamoroso, meno evidente, meno primitivo; cercando di renderlo più sofisticato. Si tratta di diari truccati. Guerre lontane è un diario truccato. Le date al suo interno sono implicite ed esplicite, c’è il gioco che vuole rivelare il meccanismo di possesso, di allontanamento e di presenza allo stesso tempo rispetto a quella forma. Presenza e assenza, superamento insomma di quella forma.
Il diario viene tradizionalmente avvertito come espressione dell’Io e in altri tuoi romanzi c’è un narratore che si chiama Franco Cordelli. Ma, alla faccia dell’autofiction di cui si parla tanto, tu scegli una strada completamente diversa. Sembra che tu voglia giocare con questa idea della messa in mostra dell’Io e della sua presunta verità.
Già all’altezza del Poeta postumo (e penso alle sue epigrafi) avevo acquisito una nozione che mi è rimasta e non è mai tramontata: fingere è inutile, non fingere è impossibile. Sei costretto a muoverti nell’intercapedine tra finzione e non finzione. Di fatto ti muovi sulla lama del rasoio. Da un lato rendi manifesto il fatto che è inutile dare al personaggio un altro nome che non sia il tuo, dall’altro capisci che anche non dare un altro nome è esso stesso un trucco, una finzione. Sei in questa tenaglia tra la volontà di non fingere (e quindi di dire la verità) e l’impossibilità della verità. Io non credo nella verità. Non credo nemmeno nella ricerca della verità. Credo che di fatto ci poniamo il problema della verità ma sappiamo che la verità non esiste, che è impossibile. Non puoi dire la verità. Se utilizzi “Franco Cordelli” come nome di un personaggio invece di inventarne uno, poiché ambisci a dire la verità, non puoi credere che siccome hai scritto “Franco Cordelli” stai dicendo la verità, anche quella è una finzione. Il rapporto tra ciò che si rende manifesto e ciò che non si rende manifesto sfugge alla nostra consapevolezza. L’idea di scrivere la verità è impossibile.
Diamo un’occhiata a queste epigrafi. In una, di Hermann Broch, si legge: “Nella condensazione, processo tipico dei sogni, si fondono insieme gli attributi di diversi individui per dar luogo ad una sola figura, più o meno come avviene nel montaggio”.
C’è questo scrittore norvegese, Karl Ove Knausgård, che ha scritto un romanzo, in diversi volumi, come fosse un interminabile diario della sua vita, scendendo nei minimi particolari. Già nell’intenzione di descrivere ogni dettaglio è chiaro che si sta inseguendo l’idea della verità, ma è altrettanto chiaro che è impossibile. Per quanto questo scrittore scriva libri per dare conto della propria vita nella sua interezza e complessità, in realtà è impossibile che ci riesca. Anche lui finge, sebbene il suo proposito sia quello di non fingere. Invece l’artista “normale”, Broch, condensa. Il racconto, la trasmissione di un’esperienza, può avvenire soltanto attraverso la sintesi, la condensazione.
Pensando a Knausgård viene in mente anche I giorni e gli anni di Uwe Johnson.
Anche in lui c’è questa idea e Knausgård nasce sicuramente da una costola di Johnson.
Tra le altre epigrafi anche queste due sono particolarmente interessanti per il nostro discorso: “Realtà: una delle poche parole prive di significato senza virgolette” di Vladimir Nabokov, e “Passando il testimonio allo storico, il romanziere sorride soddisfatto. È stato più svelto di quanto possiate credere” di Norman Mailer.
Quella di Nabokov è eloquente. Non posso pensare di dire “Franco Cordelli” pensando che questa sia la realtà, ovvero la verità. Quella di Mailer è legata al Poeta postumo in particolare, perché si tratta del resoconto di un’esperienza vissuta dal narratore e da altre persone. È una specie di reportage “lirico” in cui la condensazione è manifesta, diciamo più manifesta rispetto ai normali reportage. Mailer si poneva il problema del rapporto tra reportage e romanzo, cioè tra la verità, o realtà, e la finzione.
Tu dici “verità, o realtà”, però verità e realtà sono due cose diverse.
Molto diverse. Mettiamola così: anche la parola verità è una di quelle parole che non possono essere dette se non tra virgolette. Queste due parole le accostiamo in quanto sono l’una il complemento dell’altra. La realtà è la parte materialistica dell’essere, la verità è la parte spirituale. Adesso sto semplificando molto ma penso che si possa dire anche così, anche se forse un filosofo mi bacchetterebbe. Ci accostiamo alla realtà, o pensiamo di accostarci alla realtà, qualunque cosa essa significhi, per trovare la verità; ma sappiamo anche che la verità, come abbiamo detto prima, non esiste. Esiste l’approssimazione o il tentativo di approssimazione.
Tu una volta hai detto: “La scrittura è una dichiarazione di guerra all’Io”. Cosa intendevi con “dichiarazione di guerra”?
Tutte le rivendicazioni di identità sono reazionarie. Non credo nell’identità, non credo nell’Io. Cosa voglio dire: l’Io è l’equivalente della coppia realtà/verità. L’Io è la realtà, ma dentro di sé c’è anche la facoltà di approssimarsi a sé stesso per scoprire qual è la sua verità, qual è la verità che l’Io indagatore cerca. Se lo scopo, come quasi sempre accade, è quello inconsapevole di dare corpo, fisionomia a quest’Io, di imporlo come se fosse una verità, se non La verità, ecco, questa mi sembra la cosa più politicamente pericolosa e più grave che ci sia. Per esempio: la Catalogna che vuole affrancarsi dalla Spagna perché rivendica una sua identità. La Catalogna ha di certo le sue caratteristiche non dissimili da quelle della Spagna, e rivendicare queste peculiarità, questa identità, sicuramente è utile da un certo punto di vista: è quello che fa ogni scrittore che rivendica quel briciolo di verità che si aggiunge al resto del mondo; ma qual è il rischio di queste rivendicazioni? È di estinguersi dal resto del mondo. La guerra all’Io è una dichiarazione politica. L’Io è una metafora di quanto accade nella vita sociale. Io penso, ad esempio, che nel Leninismo o nel Marxismo la rivendicazione della classe operaia di se stessa, apparentemente simile a quella della Catalogna nei confronti della Spagna, sia in realtà una dichiarazione di guerra che ha una fisionomia ben diversa: più che una volontà di potenza è una volontà di abbattimento di un’altra potenza. La classe operaia che rivendica se stessa ha una finalità che va oltre se stessa. La rivendicazione che intendo io non è per prendere il posto altrui, non è per sostituirsi. Io non mi voglio sostituire allo scrittore che mi ha preceduto generazionalmente, o a Shakespeare: io vorrei, per un briciolo, aggiungere me stesso alle presenze già esistenti, se per caso fosse utile per gli altri. Come la classe operaia che certifica se stessa.
La guerra all’Io è la guerra contro chi vuole imporre la propria egemonia, in metafora si intende; contro chi pensa che esista un Io definibile. Se io pensassi che esiste un Io definibile allora dovrei ammettere l’esistenza della verità, l’Io definibile sarebbe una verità. Io accetto la rivendicazione di identità soltanto nei termini in cui immagino possa essere detta da un leninista: per abbattere una pseudoidentità che vuole imporsi (la borghesia ad esempio che vuole imporre la sua identità fasulla). Io la devo abbattere, ma non per imporre la mia identità, altrimenti sarei fasullo anche io.
Nei due romanzi di cui abbiamo parlato si avverte un senso di solitudine nei personaggi. Non perché i due narratori siano due eremiti, ma in entrambi c’è un allontanamento.
Si tratta di un residuo psicologico-culturale, che spero prima o poi scompaia. Un inchino a terra è la vicenda di un personaggio narrata da un altro; Il duca di Mantova è addirittura la configurazione dell’idea di comunità rispetto all’idea di società; La marea umana di fatto è un romanzo che si pone sul piano del conflitto di idee; in Una sostanza sottile parte della narrazione è affidata a un altro. Tutto questo per criticare la solitudine. Può darsi che ci sia una reale solitudine nei fatti, nei personaggi. L’idea, però, è quella di criticare la solitudine. La ragione per cui compaiono in scena queste figure (il narratore esterno di Un inchino a terra, ad esempio) si spiega col tentativo di abbattere l’idea di solitudine, di criticarla.
Qual è il tuo libro che in questo momento della tua vita senti più vicino?
Dopo aver scritto La marea umana e Una sostanza sottile il libro che sentivo più vicino, anche affettivamente, era Il duca di Mantova, forse perché l’ho scritto più velocemente, in modo più leggero, probabilmente perché è figlio di un rapporto un po’ più laico con la forma romanzo, meno ossessionato. Adesso, La marea umana e Una sostanza sottile mi sembra che mi somiglino di più, ma forse perché, essendo gli ultimi, sono quelli più vicini a come sono oggi. E in ogni caso anche oggi forse non sono più come allora, come quando ho elaborato la prima stesura di Una sostanza sottile, nel 2012. Sono passati sei anni e sono sicuramente diverso: se primo ero scettico, ora sono nichilista nei confronti della mia necessità di scrivere romanzi. Non per questo penso che il romanzo sia morto.
Abbiamo parlato di lontananza, di testo che viene dopo, di divenire, e la parola “postumo”, che ritorna nei tuoi libri, fa pensare alla “fine”, altra parola che, in una certa misura, mi sembra accompagni la tua vita di scrittore. Cosa rappresenta per te la parola “fine”?
La fine è ciò che dà senso a ciò che la precede. La vita non ha senso in sé, se ce lo ha è perché finisce. Nel tempo che ti è concesso cerchi di ottimizzarlo il tempo, e questa ottimizzazione è il suo senso. Quindi è il fatto che il tempo cessi che dà senso alla vita, l’unico senso possibile. Mi viene da pensare al primo racconto dell’Aleph di Borges, L’immortale, dove si prefigura l’immortalità. Se la vita non finisse non avrebbe senso.
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M. Castiglioni è saggista
Sul numero di ottobre 2018 Massimo Castiglioni ha recensito la ripubblicazione di Procida e di Terre lontane di Franco Cordelli per i tipi di Theoria.