L’aspetto selvatico della lettura
Giorgio Vasta è il direttore creativo di Book Pride, la fiera nazionale dell’editoria indipendente che si terrà a Genova dal 28 al 30 settembre.
Qui è intervistato da Matteo Fontanone.
Partirei da una considerazione preliminare: mi sembra che mai come in questi ultimi anni sia evidente – e lodevole – lo sforzo dell’universo editoriale per far fronte alla crisi del libro. Tanti festival di altissima proposta qualitativa, nuove realtà indipendenti che portano in Italia ottima letteratura straniera, figure professionali inedite in ambito comunicativo. I dati sulla lettura, tuttavia, continuano a fotografare un panorama piuttosto fosco. Da direttore di una rassegna come Book Pride Genova a quali conclusioni arrivi, se ti guardi intorno?
Da un lato abbiamo la grande quantità e qualità di manifestazioni letterarie, dall’altro i dati sulla lettura: quando si mettono in relazione questi due fenomeni, si verifica una situazione contraddittoria. È come se fossero descritti due pianeti diversi: uno dove vivono persone che mettono il libro al centro della loro esperienza, un altro in cui il libro non è neppure residuale, ma estinto, addirittura percepito come una forma di mediazione fraudolenta da cui ci si deve liberare in fretta, così che si possa esprimere compiutamente il culto della disintermediazione. Penso che ci sia un macro-fenomeno in atto che ha a che fare con le forme di sapere, con il modo in cui prende forma la conoscenza del mondo e di sé. Per ragioni anagrafiche, molte delle persone che lavorano con i libri si sono formate attraverso il libro e lo hanno individuato come strumento essenziale. Sono le persone alle quali costa tanto, da un punto di vista psicologico, pensare che alla conoscenza del mondo si possa arrivare anche in altri modi. Si tende a interpretare come uno sperpero, come una barbarie, l’allontanamento dal libro, laddove invece c’è soltanto una metamorfosi. Questo però non vuol dire che il lavoro che si fa provando a dare forma al programma di una fiera sia residuale in senso negativo. Le persone che hanno a che fare con i libri ogni tanto si percepiscono come lampionai, come interpreti di un lavoro che sta al margine; il fatto però è che questo residuo è notevole, chiede, interpella, è ancora cospicuo, dà fiducia allo strumento libro. Le fiere, e Book Pride vorrebbe essere una fiera che nel programma funziona come un festival, vent’anni fa erano salutate come qualcosa che avrebbe dovuto creare una relazione ravvicinata tra chi legge i libri e chi li fa. In buona parte queste manifestazioni hanno sostituito l’atto del leggere: è più semplice seguire un incontro da un’ora con un autore che leggere un libro, per ragioni fisiche e cognitive. Leggere un libro significa stare nella durata, ha a che fare con il tempo. Invece di una lunga frase, oggi abbiamo tanti segni di punteggiatura che lo spezzettano, il tempo – correlativo della consultazione compulsiva dell’iPhone. Non è detto che alla fine dell’incontro tu prenda un libro, o che vada all’incontro avendolo già letto. Il libro e l’incontro non hanno più relazione. Non si può secondo me, trascorsi più di vent’anni dai primi passi, non ragionare su questo fenomeno: le manifestazioni culturali svolgono una funzione sostitutiva. Non solo più ponti, ma anche fondamenta.
Come si lavora, quindi, a partire dal residuo? Come gli si rende un buon servizio senza inciampare nelle logiche a breve termine della promozione fine a se stessa e nelle mode?
Si dà forma a una fiera o a un festival avendo chiara la consapevolezza da cui muovere, sapendo anche che ci sono delle retoriche, alcune delle quali istituzionali, altre strutturali. Retoriche che descrivono il libro e la lettura come oggetto e comportamento virtuoso. Chi ha a che fare a livello agonistico con la lettura è invece consapevole che leggere non è uno strumento o un’occasione per stare meglio o per meglio adattarsi all’ambiente, anzi. La persona che oggi legge, direbbe un etologo, si indebolisce dal punto di vista dell’adattamento all’ambiente. Quello che guadagna, leggendo, è la comprensione del motivo per il quale fatica ad adattarsi all’ambiente e del motivo per il quale non essere collimanti è un bene. Della lettura mi piacerebbe venisse evidenziato quest’aspetto selvatico, questo essere fuori sincrono. Capisci meglio perché non stai bene.
La lettura nel modo in cui la stiamo descrivendo è una lettura che mette chi legge nelle condizioni di riconoscere anche i vizi, gli automatismi, le semplificazioni attraverso cui quel libro ti è finito in mano. Provo a portare esempi concreti scegliendo due case editrici, la prima la ospitiamo anche al Book Pride: il Saggiatore e Adelphi. I loro cataloghi sono serenamente inattuali, ma privi di atteggiamenti polemici o ripiegamenti insofferenti verso la nicchia; soltanto, non sono condizionati dall’ossessione di dover stare sul pezzo. I loro libri, anche se usciti nella contemporaneità, hanno una specie di extra-territorialità, vengono proposti al pubblico a partire da un patto chiaro: mi fido dei vostri contenuti perché sono trasversali, hanno a che fare con l’umano. Se partono dall’umano e parlano dell’umano sono allo stesso tempo inattuali e abissalmente contemporanei. Sono infatti case editrici che canonizzano, che hanno la capacità di poggiare il piatto della spada sull’autore e farlo cavaliere, mettendolo in un altro contesto, fuori dalla corsa alla presentificazione a ogni costo. Le stesse strategie degli uffici stampa, in questo caso, si fanno più duttili e complesse: sanno che non stanno lavorando su un libro che diventa vecchio dopo quattro mesi. A me piace molto quando gli editori riescono a portare il livello della commercializzazione e comunicazione del libro allo stesso livello di complessità del libro che propongono.
Cosa significa per uno scrittore – la cui opera artistica è una mediazione tra le proprie istanze creative e la letteratura degli altri – allestire un cartellone e operare delle scelte?
È qualcosa su cui mi interrogo da un anno. Una manifestazione non dev’essere l’autoritratto di chi la organizza, ma allo stesso tempo non può, nella sua formalizzazione e nelle scelte che la caratterizzano, non recepire e rendere percepibile ciò che sei, quello che ti interessa o ossessiona, perché l’ossessione ti governa e agisce al di là del tuo controllo. È il motivo per cui lavori con altre persone: mettere in risalto o stemperare le idiosincrasie degli altri. C’è una continuità tra la scrittura e il lavoro di formalizzazione di un programma, ed è una continuità nevrotica. Avere il controllo di una pagina non significa domarla, ma raggiungere un punto di equilibrio tra il tuo bisogno di governare la lingua e l’impulso incoercibile della lingua a disarcionarti – che si esprime in tanti modi, anche nel più semplice refuso. Questo principio nevrotico compare anche nella messa a punto del programma. Costruisci dei contenitori, li intersechi, dialoghi con le case editrici ascoltando le loro proposte e facendo loro contro-proposte che abbiano come obiettivo la continuità del programma, che il tema non sia decorativo ma centrale. Fai tutto questo, ma sai che in punti diversi il tuo lavoro ti disarcionerà. Anzi, lo specifico di questo lavoro sta proprio nel non riuscire a fare in pieno quello che vorresti. È un’occasione di conoscenza dell’altro interessantissima: mentre scrivi il legame agonistico con la pagina è del tutto individuale, quando dai forma a un programma hai decine e centinaia di interlocutori. Non si tratta di frammenti schizoidi della tua personalità, ma persone vere e proprie, che come e tali vanno interpellate e trattate. Viene fuori una relativizzazione di chi sei.
“Tutti i viventi” è il tema dell’edizione di quest’anno. Una dicitura ambigua, sospesa, senza verbo e per questo interpretabile diversamente a seconda di chi ci ragiona. Tu come la intendi?
L’aumentare di fiere e festival negli ultimi anni ci ha messo a confronto con i temi: a volte pienamente riconoscibili, altre volte affermati ma poi sommersi nel programma. Nella maggior parte dei casi i temi sono immediatamente intelligibili: l’altro, il confine, lo straniero. Sono dei temi tradizionali, tanto da essersi velocemente istituzionalizzati. Esageratamente riconoscibili, sottintendono un universo valoriale ben preciso. L’altro in un’accezione totalmente positiva, le frontiere che vanno abbattute: a partire da un dato tema, sappiamo già come verrà articolato tutto il discorso. A me interessava l’ambiguità: l’idea di Tutti i viventi arriva nel mezzo di una discussione che aveva a che fare con l’ambiguità intesa non come anomalia o malizia, ma come struttura. Il reale è ambiguo, strutturalmente ambiguo. Volevamo un sintagma che risultasse enigmatico, tanto che è stato necessario articolarlo in otto sottotemi a Milano e nove a Genova, così che le case editrici avessero delle direzioni più tradizionali a partire dalle quali proporre i loro titoli. La nostra è un’espressione plastica, manipolabile, che in realtà ha un verbo ma rimane fuori dalla frase. La scorsa estate ho letto il manifesto di Odei, l’Osservatorio degli editori indipendenti: sono rimasto molto colpito da un passaggio, in riferimento alla tutela di Odei nei confronti di chi lavora nel mondo editoriale, che si rivolgeva a “tutti i viventi” della filiera editoriale. “Tutti i viventi” è ben isolato tra due punti fermi, l’ho letto come un affioramento letterario in un registro dichiarativo, tecnico. Solitamente, quando si parla di esseri viventi ci si concentra sulla nozione più immediata e scolastica che abbiamo, quella che arriva dall’ora di scienze, organismi inscritti in un ciclo vitale. Collocando quest’espressione nel contesto editoriale letterario è come se la idratassimo, la rendessimo più ricca e complessa: l’immaginazione letteraria ha la capacità di inventare il vivente, se metti in mano al bambino la scopa e il bastone nel giro di poco ne fa un cavallo. L’immaginazione letteraria conferisce il carattere del vivente a qualsiasi cosa. Sul crinale tra biologia e immaginazione abbiamo deciso di intendere la parola viventi.
A questo punto, qualche istantanea del programma. La scorsa primavera, a Milano, uno dei fili rossi più dibattuti di Book Pride è stata la rinascita delle riviste.
Il discorso sulle riviste è fondamentale, e muove da un principio che in un certo senso è elementare, anche se mi accorgo di quanto allo stesso tempo sia sfuggente. Chi realizza le riviste è un editore, quindi un nostro interlocutore naturale. Noi tendiamo a pensare l’editore di riviste come un editore che fa altro. Quanto più la rivista assume la forma del libro, tanto più la riconosciamo come tale: si pensi a “Nuovi Argomenti” o a un’esperienza come quella di “Testo a fronte”. Siccome in realtà il lavoro di scouting e il ragionamento sulla selezione dei testi e sulla grafica è un tratto distintivo di chi lavora con la letteratura, ci faceva piacere che le riviste avessero spazio, ascolto e occasione di proposta, tanto quanto gli editori. Anzi, come tutti gli altri editori, essendo loro stessi editori.
Rispetto all’edizione milanese, l’impressione è che Book Pride a Genova si inserisca ancora di più nel tessuto editoriale della città e della regione. Penso alle tante realtà cui avete dato spazio, agli omaggi verso Caproni e Sanguineti, alla presentazione dello scritto autobiografico di Leonard Pfeijffer, La superba. Poi però c’è stato il 14 agosto. Ti chiedo come è possibile, ammesso che sia possibile, avviare delle riflessioni collettive senza rimanere impiastricciati nelle formule retoriche, nel cordoglio precotto, in un certo tipo di linguaggio della tragedia che, a tutti gli effetti, sarebbe bene considerare dannoso.
Ti dico come sono andate le cose nel corso dei mesi. È vero, il dialogo con le case editrici locali ha determinato una presenza molto riconoscibile di libri che hanno a che fare con Genova e la Liguria. Lavorando con loro si andava evidenziando una linea ligure sempre più preponderante, tanto da farci chiedere se valesse la pena tenere gli incontri scollegati, senza un sottotema che li agglutinasse. Abbiamo scelto “Genova per noi”, prendendo spunto da Paolo Conte. Dopo il crollo del ponte Morandi abbiamo cercato di capire se fare qualcosa, prima ancora di capire che cosa o come. È inevitabile, non puoi non vivere l’imbarazzo delle parole davanti a qualcosa che ti fa ammutolire. Cosa c’è da dire? Volevamo rimanere coerenti al nostro metodo, che si fonda sul principio dialettico. Abbiamo pensato a un incontro con Matteo Indice, Giovanni Spalla, Enrico Testa, Antonella Tarpino, dal titolo “14 agosto 2018, ore 11.36”. Volevamo proporre parole alternative a un certo tipo di racconto giornalistico, senza neppure la lontana presunzione di investigare, di trovare le cause, di andare a fondo. Non è un incontro poliziesco in cui si dice la verità sui responsabili, ma un’occasione in cui ci si dà del tempo (due ore, più dello standard) per ragionare sulla vulnerabilità del paesaggio. Ci siamo chiesti che cosa avesse a che fare con la letteratura, e ci siamo resi conto che si stava parlando e presumibilmente si parlerà di tempo: questa fragilità comincia negli anni ’60, nei quali prendono forma una serie di progetti infrastrutturali, alcuni addirittura mai conclusi – le Vele, lo Zen, Corviale. Ma ripeto, tutto quanto nella consapevolezza di voler restare a margine, di non voler fare del protagonismo con un incontro sul disastro.
Saranno ospiti della rassegna tre autori cruciali per la letteratura italiana degli ultimi vent’anni: Helena Janeczek, Maurizio Maggiani e Tiziano Scarpa.
Avere tre premi Strega nel cartellone non è frutto di strategia. Helena, che inaugura l’anteprima del Book Pride genovese, era già una dei quattro autori dell’inaugurazione milanese, in un incontro il cui tema, l’umano, abbiamo deciso di leggerlo esplicitamente in una prospettiva antifascista. È un’autrice che seguo dai tempi di Lezioni di tenebra e Cibo, con cui ho condiviso anche un percorso dentro Nazione Indiana, insieme tra gli altri a Moresco e a Tiziano Scarpa. La ragazza con la Leica è un lavoro di ribaltamento prospettico: quella che di solito è nominata sempre e solo come la compagna di Robert Capa, ora invece diventa il personaggio principale. Non per celebrarlo, ma per disperderlo. La Taro in tutto il libro serve ad attivare una miriade di altri personaggi. Il lavoro di Helena è sottile e politico: sarebbe stato banale spingere Capa giù dal piedistallo e mettere Gerda. Con Maggiani ricordo un dialogo pubblico a Cuneo in cui si era addirittura messo a cantare: leggendolo nel tempo, di lui mi colpisce lo sguardo attentissimo sui micro-fenomeni e sul creaturale, una prospettiva laica per cui ogni segno porta a un significato e ha un’enorme complessità intrinseca. Era l’autore adatto per una lettura sul tema dei viventi.
A Milano c’erano Siti, Falco, Genna: per me, insieme ai nominati e a diversi altri – Michele Mari come riferimento fondamentale – sono tutti autori centrali e decisivi. La percezione che ho della narrativa italiana contemporanea non è riflessa da vendite, classifiche o premi. Per me è un organismo in piena salute: ne parleranno Daniele Giglioli ed Enrico Testa in un incontro.
Book Young è invece la frangia della rassegna dedicata alla letteratura per ragazzi. Credi che ancora oggi sia un genere sottovalutato?
La sottovalutazione è sempre più ridotta. Le librerie sanno quanto devono tenere in considerazione questo tipo di letteratura, ma ormai se ne sono resi conto anche gli editori: si veda il lavoro di Iperborea e La Nuova Frontiera. È un genere culturalmente molto forte: noi non avevamo alcun dubbio, né a Milano né a Genova. La cosa che mi interessa molto, nel rapporto con Andersen e La Formica, i due soggetti che hanno sviluppato il programma di Book Young, è il carattere osmotico della loro proposta. Una parte dei contenuti che provengono – come laboratorio e come gruppo di pensiero – da Book Young, infatti, sta nel programma adulti; una parte del programma adulto di Book Pride confluisce invece nel programma per ragazzi. Book Young è come se fosse, giocando, “Tutti i viventi, da piccoli”.
Chiudo con una curiosità personale. Su cosa stai lavorando?
Ho due lavori che in teoria escono nel 2019, e per me, dati i miei tempi di pubblicazione, sarebbe sconvolgente, quasi increscioso. Il primo è con Ramak Fazel, il fotografo di Absolutely Nothing, e per il momento si intitola Absolutely Everything. È un ribaltamento di prospettiva rispetto al viaggio negli Stati Uniti, dove al centro c’era la mancanza. Qui si parla del tutto, del troppo: siamo a Palermo. Palermo come città materiale anche nelle sue manifestazioni immateriali, al posto della macchina fotografica abbiamo immaginato un microscopio ottico che individua campioni, frammenti. È come se con Ramak ci fossimo scambiati la vista. Nel libro precedente io viaggiavo con lui nei luoghi del suo quotidiano, adesso – in teoria – dovremmo fare l’opposto. Ramak è stato a Palermo quattro volte nell’ultimo anno, spesso quando non c’ero, a volte mi mandava foto di spazi che io non avevo mai notato. Il dato paradossale è che anche qui a Palermo Ramak ha molta più familiarità di me con il mondo esterno, ormai è lui che mi porta in giro per la città. Ma, rispetto al precedente, è un libro congegnato in un’altra maniera, secondo la preponderanza delle immagini: gran parte del testo sono le didascalie.
Sto poi ragionando su un argomento che, mi sono reso conto, attraversa sottotraccia tutte le cose che ho fatto fin qui: il tempo perso. Secondo il pensiero comune viene considerato imperdonabile, è dissipazione senza scusanti, eppure ho l’impressione che sia il principale patrimonio cui bisogna attingere, il luogo dove avvengono le cose fondamentali. L’impulso per un libro in questa direzione è arrivato da una serie di discussioni con Daniele Giglioli. Ora dovrei solo scrivere.
matteo.fontanone@gmail.com
M Fontanone è consulente editoriale e critico letterario
Viaggiare attraverso il nulla: la recensione di Matteo Fontanone a Absolutely Nothing di Giorgio Vasta.