Monica Galfré – Tutti a scuola!


Sedendo fra passato e futuro

recensione di Vanessa Roghi

dal numero di settembre 2018

Monica Galfré
TUTTI A SCUOLA!
L’istruzione nell’Italia del Novecento
pp. 332, € 25
Carocci, Roma 2017
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Monica Galfré - Tutti a scuola!L’urgenza di tornare a parlare bene di scuola è oggi sotto gli occhi di tutti: di scuola si parla ormai quotidianamente sulla stampa, nei talk show televisivi. Di scuola si occupano i giornalisti e gli opinionisti, solo nell’ultimo anno hanno scritto libri o articoli che ruotano intorno al tema della scuola e dell’educazione Michele Serra, Massimo Gramellini, Antonio Polito e Giovanni Floris. Anche storici che mai si sono occupati di storia dell’educazione hanno imbracciato le armi e rivestito nel pubblico agone il ruolo di censori dei tempi nuovi in nome della scuola del tempo che fu.
Il punto di vista prevalente, infatti, aldilà di ovvie differenze di visione, è quello che identifica una crisi del sistema scuola come caratteristica tipica del presente, una crisi con tinte cupe e catastrofiche mitigate da sprazzi di nostalgia: il discorso sulla scuola si nutre infatti di un doppio e, apparentemente antitetico, movimento. Lo sguardo rivolto a quello che si ha sotto agli occhi o a un futuro prossimo nel quale i ragazzi non sapranno più leggere e scrivere (balbuzie twittesca, lettera dei 600, vari appelli) e le spalle a un passato che viene guardato però senza neanche voltarsi a vedere le (presunte) macerie ma attraverso lo specchio distorto dell’ideologia scolastica/generazionale che ogni autore porta con sé. Con un effetto di retropia, scrive Zygmunt Bauman, a dir poco imbarazzante. La scuola del passato è il correlativo oggettivo dell’età dell’oro, poi di quale passato si parli non è mai (quasi) dato saperlo. Per questo il miglior antidoto sono i libri di storia della scuola, e fra questi quello di Monica Galfré è sicuramente uno degli antidoti migliori.

Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, fin dal titolo, evidenzia la questione che sta a cuore alla studiosa: l’allargamento progressivo della base sociale coinvolta nel progetto di alfabetizzazione nazionale, un progetto niente affatto scontato, frutto di una ideologia ottocentesca (si veda per esempio il recente volume di Vincenzo Schirripa, L’Ottocento dell’alfabeto italiano, La scuola, 2018) le cui contraddizioni l’autrice mette bene in luce attraverso l’analisi del punto di vista delle classi dirigenti sulla formazione superiore (“le pupille degli occhi della borghesia”, dice Federico Chabod), la complessa dialettica centro-periferia, città -campagna, che determina, per esempio, in modo sostanziale il farsi del mestiere della maestra (e in questo ricordare gli studi di Simonetta Soldani è obbligatorio). L’analfabetismo persistente, l’egemonia cattolica mai messa in discussione, fino ad anni recentissimi, quando “appare innegabile il tramonto del modello che, nato con l’Unità, ha dominato gran parte del secolo scorso. Se le sue tracce paiono ancora visibili, ha perso forza l’idea della scuola centralizzata di Stato come strumento esclusivo di nazionalizzazione, in primo luogo contro le pretese ecclesiastiche, con cui pure un paese profondamente cattolico come l’Italia è dovuto scendere a compromessi. Si è allo stesso tempo consumato il passaggio dall’asse umanistico – pietra angolare dell’identità collettiva della Terza Italia – a quello scientifico-tecnologico; mentre è entrata in crisi quella “pedagogia dello sforzo” su cui hanno insistito intellettuali di orientamento assai diverso, modificando via via il punto di equilibrio tra esclusione e inclusione”.

Il libro di Galfré, così, passo dopo passo, ricostruisce il peso e la grande eredità della riforma Gentile nella scuola dell’Italia repubblicana, l’ideologia cattolica che si intreccia al lascito fascista e gentiliano (quindi anche liberale) per creare le basi di quella che sarà l’educazione obbligatoria almeno fino alla riforma delle scuole medie del 1963: “nonostante limiti e contraddizioni, la media unica è una rivoluzione, che registra trasformazioni già avvenute o in corso e che al tempo stesso ne innesca di nuove. La novità appare evidente già l’1 ottobre 1963, quando tutti i bambini classe 1952 della penisola, di città e di campagna, dalle Alpi alla Sicilia, sono chiamati a frequentare lo stesso tipo di scuola, uguale nei programmi, negli orari, nelle opportunità. L’immissione in ruolo di oltre 20.000 insegnanti e l’aumento di stanziamenti per l’istruzione da 611 a 962 miliardi danno la misura della rilevanza della riforma” e anche se “il suo impatto sulla realtà è tutto da valutare in sede storiografica”, Galfrè ne mette in luce l’importanza non solo come conseguenza ma anche come traino dello sviluppo sociale del paese.

Vale la pena di ricordare come il libro di Galfré sia utile a relativizzare anche alcuni tormentoni che attraversano il dibattito odierno quali la perdita di uno status sociale rispettabile per gli insegnanti (il piedistallo su cui si erge la figura del professore nella scuola non è mai esistito, a meno che per scuola non si intenda esclusivamente liceo classico). O l’idea che la scuola sia la fucina di tutti i mali: non è del resto nuova la tendenza a scaricare sulla scuola le colpe delle crisi più drammatiche dell’Italia unita, o almeno di processi ben altrimenti complessi, che nella situazione scolastica hanno solo una delle loro manifestazioni. Da Pasquale Villari, che all’indomani delle sconfitte del 1866 – com’è noto – individua un pericoloso nemico interno nel “quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi”, puntando il dito sulle carenze dell’istruzione; alla Commissione parlamentare sul terrorismo e sul caso Moro, che ne parla come del “tallone d’Achille della Repubblica”. O, infine, la convinzione che la “crisi” sia un fenomeno congiunturale e non strutturale del sistema scolastico: “Il dibattito che imperversa nel corso degli anni ottanta sulla qualità dell’istruzione e della scuola induce a una riflessione sull’uso della categoria di crisi per il caso italiano, che non conosce soluzioni di continuità e in un’ottica storica rischia di confondere le acque, invece di favorire la comprensione. Il perdurante stato di difficoltà, e in talune zone finanche di degrado, insieme all’incapacità di rispondere alle esigenze poste dalla società, disegnano in questo periodo un panorama critico dell’istruzione pubblica sia in termini materiali, di strutture e servizi, sia in termini culturali, di programmi e preparazione degli insegnanti. Si tratta però di lamentele senza tempo, che assomigliano a quelle del passato e in parte sono insite nella natura stessa dell’istituzione, perché inevitabile è lo scarto tra quello che da essa ci si aspetta e cosa effettivamente può dare e dà. E allora, cosa c’è di nuovo nella crisi degli anni ottanta, al punto da divenire una chiave di lettura imprescindibile? Senz’altro il dato nuovo è che la dichiarazione di crisi appare chiaramente funzionale a screditare il sistema vigente”.

Così facendo, nella sua storia del tempo presente, Galfré declina la provocazione di don Lorenzo Milani quando nella Lettera ai giudici scrive: “la scuola siede fra passato e futuro e deve averli presenti entrambi”, per questo tanto apprezzabile è lo sguardo che riflette sull’oggi (al netto degli ultimi venti anni di riforme che sono un’altra storia ancora da scrivere): “nonostante ritardi evidenti e drastici tagli di spesa, le valutazioni impietose dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e una generale tendenza al catastrofismo, fino a oggi la scuola reale si è dimostrata assai più vitale e capace di rigenerarsi di quanto non traspaia dal dibattito pubblico”.
Infine: “Scrivere di quegli anni (gli anni sessanta, ndr) è stato anche un esercizio di equilibrismo tra i tempi della storia e quelli della memoria e – malgrado fossi allora solo una bambina – un modo per dare delle risposte a interrogativi conservati nel mio profondo”. Monica Galfré è situata nella sua ricerca, dice “da dove parla”, per citare Michel De Certau, e così facendo ci aiuta a ricordare che il discorso dello storico è relativo e proprio per questo tanto utile e necessario al nostro tempo fatto di opinioni incrollabili e certezze atemporali.

vanessa.roghi@gmail.com

V Roghi è libera ricercatrice e autrice di documentari per Rai Tre