La letteratura è per me una ferita, una cruna, un passaggio
intervista a Antonio Moresco di Orazio Labbate
Che cos’è la letteratura?
Non lo so, non ne ho la più pallida idea. Lo stesso nome (‘letteratura’) è una parola di convenzione che sta a indicare un insieme di parole scritte diversissime le une dalle altre e di cui ciascuno forza a modo suo il significato. Per me la letteratura è una ferita, una cruna, un passaggio.
Quanto è fondamentale la lingua perché un libro possa dirsi letterario? E la struttura?
Non so neanche questo, nel senso che non credo che la riconoscibilità della letteratura stia in un tipo di lingua piuttosto che in un altro. Ci sono libri di grande valore scritti in modo molto diverso: ridondante oppure asciutto, solenne oppure telegrafico, lussureggiante oppure scarnificato, sofisticato oppure come buttato lì… Melville scrive in un modo, Defoe in un altro. Shakespeare scrive in un modo, Cervantes in un altro. Leopardi scrive in un modo, Emily Dickinson in un altro. Faulkner scrive in un modo, Hemingway in un altro… Proust gonfia la lingua, le fa fare mille circonvoluzioni per arrivare a dire tutto, Joyce si apre l’impermeabile di fronte al lettore per esibire le proprie doti, porta la lingua in alto e poi in basso, e poi ancora in alto, come sui binari delle montagne russe, Céline la spacca, la fa diventare come le pietruzze di un mosaico, come le schegge di un’esplosione, Kafka la fa passare inosservata, eppure la tende come una corda sopra l’abisso…
Io stesso, nella mia vita, ho scritto un libro come Canti del caos e un altro come La lucina (cfr. “L’Indice” 2013, n. 7) che potrebbero sembrare -a torto- due opposti. Non perché abbia nel frattempo cambiato idea, ma semplicemente perché nel primo avevo bisogno di forzare, caricare e mettere in sofferenza la lingua per aprirla a nuove possibilità espressive e di conoscenza, nel secondo avevo bisogno di una lingua elementare e limpida per far vedere in trasparenza ciò che si muoveva sul fondo buio. Ma anche La lucina è un piccolo canto.
Quanto alla struttura, nei libri migliori e più grandi viene a fare un tutt’uno con la lingua, col ritmo, con la musica, con la visione, con il pensiero, come succede nella Divina commedia, in Moby Dick, nei Fratelli Karamazov…
Dal tuo esordio a oggi: quale è stato il movimento evolutivo del tuo stile, e del pathos nel tuo scrivere?
Accidenti, non ti so dire neanche questo! Mi accorgo che è la terza volta che rispondo alle tue domande così: non lo so, non lo so, non lo so…. Forse è perché la parola ‘stile’ usata per definire la fisionomia, lo spessore e la portata di uno scrittore è una parola che a me sta stretta, perché può sembrare come un abito che lo scrittore impara a poco a poco a confezionarsi e che dovrebbe contraddistinguerlo come tale. “Per diventare uno scrittore bisogna forgiarsi uno stile” si sente dire, scorporando una singola cosa dal tutto: la punta dell’iceberg dal resto della massa sprofondata sotto il filo dell’acqua, la veglia dal sonno, il pensiero dall’immagine in movimento e dalla narrazione, la forma dal contenuto… Ma se così fosse e se la letteratura fosse questo e solo questo – come si è insistito molto nell’ultimo secolo e mezzo, spacciando questa postura per un’ulteriore libertà dello scrittore – sarebbe una ben misera cosa e questo esercizio di bravura sarebbe solo una piccola performance non proporzionale che rasenta l’oscenità. Ma forse non riesco a risponderti anche perché sono ancora talmente dentro quello che faccio che non posso vedermi dall’esterno, forse se e quando riuscissi a farlo dovrei cominciare a preoccuparmi… Insomma, io non lo so qual è il mio ‘stile’, anche se i miei lettori mi dicono che la mia pagina si distingue subito dalle altre. Ma non saprei definirlo e mi pare di non riconoscermi neppure in molte delle definizioni semplificate che ne sono state fatte. Riesco a capire solo che all’inizio ero sigillato fin quasi all’autismo e un po’ ‘novecentesco’, e che poi mi sono spaccato e mi sono incamminato lungo una strada nuova, su cui non tutti hanno voluto o potuto seguirmi.
Quale luogo di scrittura prediligi? E quanto è importante il “posto”?
Io ho scritto dappertutto, a cominciare da un cesso, dove ho scritto di notte gran parte di Clandestinità. Ho scritto regolarmente nella sala d’aspetto di una stazione, su delle panchine, sui treni, a letto dopo essermi svegliato di soprassalto per l’irruzione improvvisa di un’idea o di una visione, in residence disabitati e flagellati dal vento in località turistiche deserte in pieno inverno, in camere di passaggio, con il quaderno sulle ginocchia davanti a una stufetta elettrica, nella cucina della mia casa (dove ho scritto Gli esordi), sul tavolino ai piedi del letto dove dormo, spostando ogni volta le pile delle cartelle e dei fogli, ecc ecc… Ma è anche vero che ci sono dei posti dove la bestia ferita riesce a uscire più facilmente dalla sua tana, e sono: ai piedi del letto di casa mia, nel sottotetto dove da un po’ di anni posso andare a leggere e scrivere e, ancora di più, da un po’ di tempo in qua, in una località isolata dove ho visto accendersi per la prima volta la lucina e dove ho scritto gran parte degli Increati (cfr. “L’indice” 2015, n. 5)…
Cosa consigli a un giovane scrittore perché mantenga sempre vivido il fuoco dello scrivere?
Niente. Il fuoco c’è o non c’è.
Sei considerato una delle voci più significative della letteratura italiana contemporanea, ogni tua nuova opera è un evento. Sono in pubblicazione nuove opere di narrativa?
Sì, a dispetto degli anni e della mancanza di risparmio della mia vita, piaccia o non piaccia a qualcuno, questo è per me un momento di grande esplosione creativa e invenzione. La mia prossima opera, che verrà pubblicata in autunno, è un pamphlet intitolato Il grido, un libro dove butto il ferro a fondo, vuoto il sacco e mi prendo tutti i rischi possibili e immaginabili, perché questo non è il momento della prudenza ma dell’inconciliabilità, dell’intransigenza, dell’ardimento. Poi, alla fine del nuovo anno, uscirà un mio romanzo (già scritto) intitolato L’amore, che sarà la continuazione diretta dell’Addio (cfr. “L’Indice 2016, n. 5) e a cui seguirà un terzo romanzo (ancora da scrivere) intitolato Le città di confine, a conclusione di questa vasta opera romanzesca che alla fine chiederà di essere pubblicata in un unico volume intitolato Canto di D’Arco.
Ma anche a livello editoriale ci sono delle novità. Dopo avere pubblicato diversi libri presso il gruppo Mondadori Rizzoli e presso il gruppo Giunti Bompiani ho deciso di pubblicare questi nuovi libri con SEM, una piccola e coraggiosa casa editrice appena nata, che ripubblicherà anche diversi miei libri da tempo introvabili, come Lo sbrego e altri. Presso Mondadori Rizzoli (con cui ho appena pubblicato L’adorazione e la lotta e Fiaba Bianca) rimangono negli Oscar i tre vasti romanzi che compongono Giochi dell’eternità, Lettere a nessuno e La lucina. Così, dopo avere navigato sulle navi ammiraglie, sono salito in tarda età su un piccolo vascello corsaro, per spirito d’avventura e di rischio, per il piacere di una comunione editoriale stretta, per un bisogno di invenzione a tutto campo e di velocità di manovra.
Ma non è finita. Ci sono ancora altre opere che stanno prendendo forma dentro di me, soprattutto una, molto ardita e letterariamente quasi inconcepibile, che -se avrò il tempo e le forze per metterla al mondo- vorrei fosse il culmine della mia vita di scrittore. E poi ci saranno ancora nuove avventure irresponsabili attraverso il medium del cinema. Insomma, ci sarà da ballare… E allora ballerò.
O Labbate è scrittore