Zuppa di carta e latte
recensione di Giulia Gigante
Anya von Bremzen,
L’ARTE DELLA CUCINA SOVIETICA.
Una storia di cibo e nostalgia,
ed. orig. 2013, trad. dall’inglese di Duccio Sacchi, pp. 380, € 22,
Einaudi, Torino 2014
Il cibo può essere la falsariga lungo la quale raccontare episodi personali o storie inventate, ma anche la chiave interpretativa di numerosi eventi storici. Tutta la storia sovietica, sostiene Anya von Bremzen, può essere ricostruita attraverso il prisma del cibo: dalle requisizioni di grano durante il comunismo di guerra alle grottesche cucine delle kommunalki, dalle carte di razionamento alla campagna contro l’alcolismo di Gorbačëv. Il cibo, nella visione della scrittrice, è un patrimonio sociale che trascende ampiamente i confini del singolo individuo. Del resto, ha avuto un ruolo non trascurabile nella storia politica sovietica permeando ogni angolo e recesso dell’inconscio collettivo del paese. Malgrado le apparenze, quindi, L’arte della cucina sovietica non è un libro di cucina. Le ricette che vi compaiono sono soltanto un tassello del quadro molto più variegato della storia della Russia dell’epoca. Non si tratta però della storia nel senso più proprio del termine bensì della narrazione di un’epoca attraverso la lente del quotidiano. Sono storie di madri di famiglia costrette a fare i salti mortali per riuscire a mettere qualcosa in pentola, di laboriose ricerche di ingredienti in negozi vuoti o mercati dai prezzi esorbitanti. Storie vissute nelle case, discorsi fatti nelle cucine dinanzi a una tazza di tè o a una bottiglia di vodka, quando poteva anche capitare di dover mangiare dei frammenti sminuzzati di carta ammollati con il latte per far sparire segreti ingombranti.
Il libro abbraccia tutto il secolo scorso e nelle sue pagine scorrono le vicende di diverse generazioni di russi a partire dagli ultimi giorni dell’epoca zarista, tra storioni giganti, kulebjaka a dodici strati e fiumi di champagne, fino ai giorni nostri. Ripercorre gli anni venti in cui il cibo diventa una vera e propria arma della lotta di classe e i bui anni trenta, l’epoca in cui il culto di “nonno Lenin” viene soppiantato da quello del “compagno Stalin” e si fa particolarmente stridente il contrasto tra le immagini stereotipate e falsamente rassicuranti con cui si cerca di alimentare il mito di un presente radioso e la dura realtà delle persecuzioni politiche. Il viaggio di Anya von Bremzen attraverso il cibo si trasforma nella discesa agli inferi della fame più nera quando fa rivivere gli anni quaranta, tra tessere di razionamento e miseri pasti raggranellati mettendo insieme generi normalmente ritenuti non commestibili, soprattutto durante il terribile assedio di Leningrado. Le testimonianze, aneddoti e ricordi sui primi sei decenni del Novecento sono attinti dai racconti di famiglia e soprattutto dalle esperienze della nonna e della mamma dell’autrice, ma, a partire dagli anni sessanta, la narrazione diventa in prima persona. Il racconto non si interrompe negli anni settanta, quando la von Bremzen a dieci anni emigra negli Stati Uniti con la famiglia, ma continua fino all’attualità, raffigurata con graffiante ironia. A migliaia di chilometri di distanza geografica, ciò che si è lasciato tende ad assumere una dimensione mitica attraverso il filtro della memoria, ma per la scrittrice, pur rappresentando il filo della nostalgia che la ricollega alla sua infanzia russa, il cibo si intreccia anche con il doloroso ricordo della penuria dell’epoca sovietica e delle menzogne della propaganda. È per questo che le pietanze che ricorda, e di cui ricostruisce pazientemente le ricette (una per ogni decennio raccontato), sono per lei anche una sorta di “madeleine avvelenata” che la scrittrice condivide con ogni homo sovieticus: polpette (kotlety), kaša, minestra di cavolo (šči) e insalate innaffiate di maionese, perché non c’era molto altro nel paese dei Soviet. Ed è avvelenata in quanto indissolubilmente connessa a falsità ideologiche e a episodi tristi, quando non turpi, di una storia tormentata. Le vicende che con tanta intelligenza, brio e sense of humour si trovano nel libro sono i tasselli di un mosaico complesso: frammenti di una storia che non è stata ancora raccontata fino in fondo.
ggigante@ulb.ac.be
G Gigante insegna slavistica all’Université libre di Bruxelles
Tra l’hamburger e la kotleta: anche Sara Casiraghi ha recensito L’arte della cucina sovietica nel numero di marzo 2015.