Raddrizzar le gambe ai buoi
di Alessandro Iannucci
dal numero di luglio/agosto 2018
Pubblichiamo la terza parte dell’approfondimento dedicato ai traduttori di Omero. La prima parte, da Livio Andronico a Vincenzo Monti, è stata pubblicata sul numero di gennaio 2018, la seconda, che passa in rassegna i traduttori del Novecento fino alla svolta rappresentata dalla versione con testo a fronte di Rosa Calzecchi Onesti, su quello di febbraio 2018.
La modernità delle traduzioni omeriche iniziava con Monti da un immaginario già diffuso attraverso le arti figurative, anche se ancora ristretto alle élites. L’adozione di forme e sensibilità neoclassiche e di una tradizione poetica consolidata da secoli di endecasillabi consentono a Monti di riscrivere un’Iliade straordinariamente leggibile, espressione di un’idea dell’antico che permane almeno fino alla metà del Novecento. Il testo originale ne risulta superfluo (cfr. I traduttori di Omero, “L’Indice” 2018, n. 1). La traduzione di Calzecchi Onesti, sollecitata e seguita da Pavese, si propone di demolire quell’immaginario neoclassico e al contempo riporta la lettura di Omero all’originale, sia mediante la pratica editoriale del testo a fronte sia grazie a una versione aderente al singolo verso, fino alla precisa corrispondenza di ogni parola e della sua stessa posizione nella frase.
Questa operazione rinnova non soltanto Omero rendendolo nuovamente “contemporaneo” ma contribuisce a un radicale mutamento di prospettiva nell’approccio ai classici, liberati dal vincolo del modello e restituiti al fascino scabro dell’antico. Ma anche questa traduzione risulta improvvisamente superata per la lingua ormai percepita, paradossalmente, come tipica di quella dizione aulica che si intendeva evitare (cfr. I traduttori di Omero, 2, “L’Indice” 2018, n. 2).
La nuova contemporaneità di Omero eredita dal progetto di Pavese e Calzecchi Onesti la presenza del testo a fronte e l’impegno a rendere l’originaria carica performativa e orale dei poemi senza il diaframma di aspirazioni letterarie. Omero è da sempre palestra di esperimenti: scrittori e poeti hanno cercato di riscriverne il testo e adattarlo al gusto, agli orizzonti di attesa del proprio pubblico. Ma già Pasolini aveva sostenuto l’urgenza, accanto a questo tipo di traduzione “artistica”, di versioni caratterizzate da un “fine informativo”, tipiche sia del contesto scientifico e accademico, sia di quello commerciale (Arte e divulgazione, 1956). Dagli anni ottanta dello scorso secolo si diffondono le collane di traduzioni economiche di classici, tutte con testo a fronte come la “Collana di testi greci e latini” Utet, i “Classici Greci e Latini” “Bur” e quelli degli “Oscar Mondadori”, i “Grandi libri” Garzanti e gli “Scrittori greci e latini” della Fondazione Valla. Si va affermando anche nell’università la pratica di traduzioni “di servizio”, come vengono presto definite: testi di ausilio all’esegesi dell’originale mediante la continua interazione con le note di commento. Questo sorprendentemente florido mercato editoriale riflette la trasformazione dei modi di fruizione dei classici: non più modelli letterari di epica, tragedia e lirica su cui esercitare un confronto, una sorta di duello letterario in cui per cercare di far prevalere la voce originaria il nuovo autore è costretto a far sentire la propria. Del resto la cultura del Novecento dissolve i generi tradizionali e si rivolge ai classici in cerca di altro: Sofocle per la filosofia del diritto e la psicanalisi, Saffo per le teorie di genere, Omero per l’antropologia. I testi antichi in originale restano una sfida esegetica ridotta alla routine dell’interpretazione accademica, di cui la traduzione è soltanto esito e chiave di accesso a un più o meno ampio apparato di note.
In completa controtendenza rispetto a questo scenario, Giovanna Bemporad, poetessa e traduttrice raffinata, riproponeva una versione in endecasillabi dell’Odissea (Eri, 1970 e poi ristampata da Le Lettere nel 1992 e 2004), in cui la piena adesione alla tradizione letteraria costringe a una sintassi che smarrisce il rapporto stichico tra linea greca e traduzione e, anche nei colloquialismi come il “babbo” che Nausicaa rivolge al padre Antinoo, eco da Pindemonte, innesca un vocabolario già sperimentato e ancorato a una visione del tutto anacronistica rispetto a un Omero ormai diventato testo di cultura anche al di fuori dei banchi scolastici.
La necessità del testo a fronte e l’obiettivo di una traduzione volta a rappresentarne la via di accesso all’originale contraddistingue l’elegante versione dell’Odissea di G. Aurelio Privitera (Fondazione Valla, 1981-1986). Il principio fondamentale che ne determina le scelte traduttive consiste nell’uso della prosa, corrispettivo adeguato alla dizione orale e narrativa, in cui riprodurre quei vincoli di ritmo e formularità che sostanziano l’epica. Il poema è così restituito alla sua autentica dimensione di “romanzo”. Ma per quanto fruibile autonomamente, la traduzione deve in ogni caso consentire di avvicinarsi all’originale: per questo la prosa è spezzata nella cadenza di righi, interlinearmente connessi al greco, in una sorta di corrispondenza “topografica”.
Un’esplicita opzione per la prosa è invece nella traduzione di entrambi i poemi di Maria Grazia Ciani con il commento di Elisa Avezzù (Iliade, Marsilio, 1990, poi in edizione riveduta e corretta, Utet, 1998; Odissea, Marsilio 1994). L’attenzione rivolta a rendere chiari i contenuti e la ricerca di un’autenticità sempre verificata filologicamente non sono d’ingombro alla fluidità di una versione che riproduce efficacemente la paratassi della dizione omerica. Significativa la resa degli epiteti, da sempre ostacolo e tormento dei traduttori per la loro fissità stereotipa, funzionali al ritmo esametrico piuttosto che alla caratterizzazione dei personaggi, e tanto più stranianti quando riferiti ad animali o cose piuttosto che a dèi ed eroi. Così i famosi “buoi gambe storte”, con cui Calzecchi Onesti riproduceva la lettera dell’aggettivo che minuziosamente ne descrive il movimento lento e semicircolare dei piedi, sono chiariti con “i buoi dalla lenta andatura”; Atena “glaucopide” diventa “dagli occhi azzurri” e, analogamente, versi formulari di transizione in cui Calzecchi Onesti insiste sulla iterazione come “e a lui/lei rivolto/a, parole fugaci parlava” sono efficacemente semplificati in “gli/le rivolse la parola e disse”. Da questi pochi esempi, credo risalti già la cifra di questo nuovo Omero: quello che sembra rinuncia alla resa traduttiva è in realtà sforzo interpretativo orientato alla produzione di un testo in tutto autonomo, fruibile anche in una lettura distesa e continua.
La traduzione dell’Iliade di Giovanni Cerri, con il prezioso commento di Antonietta Gostoli (Rizzoli, 1996) e quelle di Guido Paduano (Iliade, Einaudi, 1997; Odissea, Einaudi, 2010), arricchite dalle puntuali e rigorose note di Maria Serena Mirto, ripropongono il verso libero e ritmato. Cerri e Paduano sono studiosi autorevoli in grado di rifondere nella lingua italiana la fitta rete di codici interpretativi e il complessivo assetto esegetico di Omero: ne scaturisce in entrambi i casi una traduzione non solo affidabile e aderente, filologicamente fondata e armonicamente integrata con i rispettivi commenti, ma anche particolarmente curata nelle sue funzioni espressive, in grado di restituire l’efficacia poetica e lo statuto di testi fondativi dei poemi. Nelle versioni di Paduano si avverte la presenza di una lingua familiare, parte della tradizione letteraria europea ma priva sia di quell’eccesso di ornamento che aveva condizionato le prime esperienze novecentesche sia di quella crudezza, a tratti straniante, impressa nei righi interlineari di Calzecchi Onesti. Cerri, fine conoscitore dei meccanismi e delle tecniche della parola orale, opta per un linguaggio comune e quasi colloquiale, immune da ogni superfetazione aulica: ingaggia una sfida con il testo originale volta a restituirne gli aspetti performativi, anche forzando una continua cooperazione del lettore invitato a riconoscere la poesia epica e narrativa come una forma primigenia di comunicazione. Da questa splendida traduzione emerge il significato culturale di una lettura attuale di Omero e, proprio sul finire del Novecento, sembra finalmente compiersi quel percorso iniziato e solo in parte realizzato dal progetto di Pavese: restituire i poemi omerici alla contemporaneità non come un modello con cui misurarsi ma come un’alterità necessaria capace di interrogarci e, soprattutto, affascinarci.
Nel nuovo millennio
La sfida continua nel nuovo millennio. La stessa generazione di studiosi che ha contribuito, da posizioni differenti, a una nuova interpretazione di Omero ha riproposto traduzioni in cui si avverte un’imprescindibile cura filologica, un’attenzione al dettaglio e alla comprensione generale. In questa prospettiva vanno considerate l’Odissea di Vincenzo Di Benedetto (“Bur”, 2010) e quella di Franco Ferrari (Utet, 2001) che ha ora realizzato anche una nuovissima Iliade (“Oscar Mondadori”, 2018): opere in cui, va notato, il traduttore è anche commentatore, a testimoniare l’indispensabile unità in cui originale greco, versione a fronte e note di commento sono funzioni reciproche e fruibili solo in rapporto l’una con l’altra. Come già avvertiva Privitera “il filologo che traduce ha la costante consapevolezza di negare se stesso”. E mentre è in preparazione una nuova edizione dell’Iliade in più volumi per la Fondazione Valla, con commento e testo critico affidati a un équipe internazionale guidata da Giulio Guidorizzi, cui spetterà anche l’onere di una nuova traduzione, riemerge l’urgenza di raccontare di nuovo Omero e non solo introdurlo e spiegarlo. Accertato che la traduzione è un altro testo, evidentemente legato a quello di partenza ma ineludibilmente autonomo da esso, si va riaffermando l’idea di “riscrivere” Omero con l’esigenza autoriale di farne rivivere non tanto il dettato originario, del resto poco stabile e definitivo come proprio l’esegesi omerica del Novecento ha dimostrato, quanto la sua capacità espressiva di opera autentica e viva, fruibile al di là degli obiettivi di una interpretazione scientifica.
Riscrivere e imitare Omero attraverso la lingua del romanzo contemporaneo, utilizzare registri diversi e funzionali all’efficacia del racconto piuttosto che all’autorità del modello, ricorrere alla forma metrica dell’esametro: queste le premesse che stanno alla base del riuscito esperimento di traduzione di Daniele Ventre, poeta e scrittore più che classicista e professore (Iliade, Mesogea, 2010, con prefazione di Luigi Spina; Odissea, Mesogea, 2014, con prefazione di Vincenzo Pirrotta). Si tratta di due volumi formidabili, in cui il conoscitore di Omero comunque ritroverà l’ipotesto sotteso, per quanto ridefinito e modernizzato (e basti l’esempio della caratterizzazione di Tersite in Iliade 2.212s.: “solo Tersite berciava ancora, il ciarlone smodato, / egli, che molte parole inconsulte a mente sapeva”). Gli altri lettori, vale a dire i destinatari privilegiati di una traduzione che non sia soltanto esegesi, ritroveranno invece Omero e la narrazione di uno spettacolare e unitario racconto, seducente e seriale, fitto di personaggi ed episodi, colpi di scena e avventure, combattimenti e riconoscimenti: insomma, molto più vicino alla sensibilità del contemporaneo e vasto pubblico di Game of Thrones di quanto si potrebbe pensare. Il pregiudizio dell’impossibilità di comprendere un testo classico senza l’esclusivo accesso alla lingua originale va forse superato. Classici non sono soltanto greci e latini. La mediazione del traduttore è indispensabile per fruire di opere che altrimenti resterebbero precluse, salvo ai pochi in grado di leggere contemporaneamente Ibsen in norvegese e Tolstoj in russo, oltre ovviamente a Shakespeare, Goethe, Rabelais, Cervantes, Dante, Omero e Virgilio nelle rispettive e ben più comuni lingue originali. Ventre mostra di conoscere il greco e Omero e, come Monti due secoli prima, sembra anche in grado di raccontarlo e farlo conoscere a quanti non sanno o non possono accedere all’ardua ed esoterica sapienza di una lingua straordinaria ma non certo più geniale di qualsiasi altra.
alessandro.iannucci@unibo.it
A Iannucci insegna lingua e letteratura greca all’Università di Bologna