Affinità emotive con Forster
recensione di Paola Splendore
dal numero di febbraio 2015
Damon Galgut
ESTATE ARTICA
ed. orig. 2012, trad. dall’inglese di Fabio Pedone, pp. 368, € 19,50
e/o, Roma 2014
Specchio rifrangente di pulsioni e frustrazioni, lo scrittore inglese Edward Morgan Forster, qui semplicemente Morgan, è il protagonista dell’ottavo romanzo del sudafricano Damon Galgut, Estate artica, osservato nel corso di dodici anni di vita, esperienze, viaggi, incontri, tentativi di scrittura, una guerra mondiale, e due infelici storie d’amore. Nessuna invenzione, nessun travestimento di nomi e date, ma la cronaca di un periodo cruciale nella vita dello scrittore, ricostruito sulla base di lettere e diari, accreditati in una nota bibliografica finale come in una vera e propria biografia. Neppure l’enigmatico titolo, Estate artica, è invenzione di Galgut ma riprende quello di un romanzo che Forster, come racconta il suo biografo Philip Nicholas Furbank, lasciò incompiuto per difficoltà di ordine “tecnico”. Qui l’immagine di un’estate artica (in analogia al fenomeno che porta luce e sole a mezzanotte in una terra di ghiacciai perenni) allude forse alla stagione che generò il capolavoro di Forster, Passaggio in India.
La narrazione comincia nel 1912, quando Morgan, a trentatré anni e quattro romanzi pubblicati con discreto successo, parte per l’India, con l’idea di scrivere un libro, ma soprattutto con il desiderio di liberarsi di una imbarazzante verginità. In India ritrova l’amico avvocato Masud cui ha fatto da precettore qualche anno prima e di cui è infatuato, ma che continua a respingere le sue avance. È a lui, in nome di un’amicizia durata diciassette anni, che Morgan dedica Passaggio in India. Dopo, non ci saranno altri romanzi perché il mondo di fine secolo in cui Forster si era formato e da cui aveva tratto fino ad allora l’energia creativa stava velocemente scomparendo, e pur avendo ancora mezzo secolo di vita davanti, scriverà solo racconti e saggi. Quanto all’amore, Morgan lo troverà anni dopo in Egitto, nella tenera ma complicata relazione con il bigliettaio egiziano Mohammed con cui avrà il primo, liberatorio, rapporto fisico: “Perché la vita non poteva essere sempre così facile e libera? Se ti andava di vedere un amico, lo vedevi e basta, e che importava se era di un’altra razza, di un’altra classe, e se tra te e lui c’era un’enorme distanza sociale?”.
Galgut, tra i più affermati scrittori della generazione emersa dalla caduta dell’apartheid, due volte finalista al Man Booker Prize, scava con profonda empatia nelle pieghe della vita emotiva di Forster, dominata dalla dipendenza dalla madre vedova, e dalla distanza incolmabile tra il desiderio e la capacità di vivere fino in fondo le sue pulsioni erotiche. Il tema dell’attrazione maschile, già presente come elemento secondario nei precedenti romanzi di Galgut, è alla base del suo penultimo romanzo, In una stanza sconosciuta (e/o, 2011), dove un giovane scontroso e solitario (forse l’autore stesso), in viaggio attraverso tre continenti, cerca goffamente di stabilire un contatto fisico con qualcuno. Ma ogni volta la carica erotica si stempera nell’attesa di un segnale di intesa, proprio come capita a Morgan in Estate artica, dove le sue infatuazioni, fin dai tempi del college, sono sempre destinate a fallire dopo estenuanti fantasie e fraintendimenti grotteschi. Morgan è dunque una sorta di alter ego per lo scrittore sudafricano, un po’ come il personaggio di Adela in Passaggio in India rispecchia le pulsioni segrete di Forster. È proprio questa identificazione a illuminare, secondo Galgut, la risoluzione di quel nodo del romanzo che aveva bloccato lo scrittore nove anni prima, l’incapacità a parlare di quello che era accaduto nella grotta di Barabar: “La rigida, sincera e grossolana Adela. Per tutti quegli anni era stata innamorata, avida del contatto di una mano maschile, e quel desiderio si era tramutato in violenza. Immaginaria, o reale, oppure fantasmatica: ma sì, che rimanesse pure un mistero…. Il mistero era nel cuore delle cose e sarebbe stato anche al cuore del suo romanzo”. Ma sono proprio l’assenza di mistero, di un momento epifanico, paradossalmente, gli elementi assenti al cuore di Estate artica, un romanzo che, tralasciando la lezione simbolista e modernista di Forster, si limita a indagare il profilo psicologico del suo personaggio, le sue insicurezze di uomo e scrittore.
Sono note l’angoscia e il senso di colpa con cui Forster visse la propria omosessualità (era ancora troppo vicina la tragica fine di Oscar Wilde), motivo per cui non solo distruggerà tutti i racconti erotici, scritti negli anni per suo divertimento, ma deciderà, con comprensibile cautela, di non dare alle stampe il romanzo Maurice, su un amore omosessuale a lieto fine, che aveva scritto quasi d’impulso negli anni in cui lavorava al romanzo indiano. Era stato l’incontro con il poeta-filosofo socialista Edward Carpenter che, in aperta sfida alle istituzioni, viveva una felice relazione di coppia con il compagno George Merrill, a liberare in lui il desiderio di quel libro in cui aveva messo tutte le sue fantasie, benché consapevole che non avrebbe potuto pubblicarlo.
Non è un caso dunque se solo lontano dal proprio paese e con partner di ceto sociale inferiore che Morgan riesce a lasciarsi andare e vivere fantasie e desideri, libero dai vincoli sociali e moralistici. Dopo Mohammed, ci saranno altre relazioni, tra cui quella insoddisfacente sul piano emotivo con un barbiere indiano alla corte del Maharaja Bapu Sahib, dove svolge per sei mesi mansioni di segretario, ma che lo rese consapevole degli inevitabili rapporti di potere di quelle relazioni, demoralizzandolo. L’incontro e la perdita di amici cari, come erano stati per lui Masud, e poi Mohammed, morto di tisi ancora giovane, un dolore di cui non riusciva a parlare con nessuno, l’avevano lasciato più che mai solo con se stesso: “Gli avevano aperto uno spiraglio sugli altri Morgan che avrebbe potuto essere, e che poi erano stati di nuovo inghiottiti dal nulla”.
Nelle sezioni del romanzo ambientate in Inghilterra Morgan frequenta gli amici di Bloomsbury, Virginia e Leonard Woolf, Lytton Strachey, D. H. Lawrence, ma senza mai sentirsi pienamente in sintonia. Ben più stimolanti appaiono le visite a Costantino Kavafis ad Alessandria d’Egitto, dove, allo scoppio della prima guerra mondiale, per evitare la coscrizione, trascorre tre anni come volontario della Croce Rossa. Con Kavafis, che lo tiene a distanza con raffinata ironia, Forster avverte una profonda affinità e gli confida il progetto di un libro su Alessandria, il posto dove “aveva imparato a non fidarsi della purezza, o piuttosto dell’idea di purezza”, e a capire che “la storia era un guazzabuglio”, dove tutto era mischiato, tutto era ibrido.
L’opera di Galgut segna un ritorno di interesse per Forster, già riscoperto dal cinema tra gli anni ottanta e novanta dello scorso secolo con film pregevoli come Passaggio in India di David Lean e Maurice e Casa Howard di James Ivory. Oggi sono gli scrittori a rendere omaggio a Forster: qualche anno fa Zadie Smith dichiarò di avere concepito il suo romanzo Della bellezza (Mondadori, 2006) come riscrittura di Casa Howard, un classico ormai della narrativa del primo Novecento; Damon Galgut ritrova oggi in Forster affinità personali emotive ed elettive, suggerendo altre possibili letture della vita e dell’opera dello scrittore edwardiano.
splendor@uniroma3.it
P Splendore insegna lingua e letteratura inglese all’Università di Roma Tre