Incesto programmato a tavolino
di Isabella Mattazzi
dal numero di febbraio 2015
Nessun secolo come il Settecento sembra porre l’autonomia del soggetto al centro del proprio discorso. “L’illuminismo – come scrive Kant nella sua più che celebre definizione – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso, ove per minorità si intende l’incapacità di servirsi da solo del proprio intelletto senza la guida di un altro”. Osa sapere, ci dice il secolo, sii il perfetto artefice della tua conoscenza, non frapporre alcun ostacolo tra il tuo sguardo e il reale.
D’altro canto, nessun secolo come il Settecento pare mettere l’educazione al centro del proprio progetto di riorganizzazione sociale. Da Le avventure di Telemaco di Fénelon fino all’Emilio o dell’educazione di Rousseau, l’arte paidetica rappresenta uno degli elementi più articolati e radicalmente inscritti all’interno del discorso letterario e filosofico del tempo. Il Settecento letterario è un mondo di educatori, di maestri e di allievi, Mentori e Telemachi, coppie squilibrate che attraversano il secolo dandosi la mano e accompagnandosi lungo gli accidentati percorsi dell’esperienza conoscitiva.
Tra il sapere aude kantiano come affermazione illuminista di una piena autonomia del soggetto in grado di trovare dentro di sé le proprie leggi e la fiducia illimitata nelle potenzialità formative dell’educazione si apre un problema di non semplice risoluzione. Come è possibile liberarsi dalle catene della guida di un altro e nello stesso tempo diventare un perfetto allievo? Come può il soggetto conoscitivo settecentesco essere guidato e nello stesso tempo non esserlo, riconoscere e nello stesso tempo non riconoscere l’autorità educativa di un altro da sé?
Se da una parte infatti il secolo dei Lumi lavora alla creazione di un “uomo nuovo” in quanto soggetto di esperienza esclusivo nel rapporto tra sé e il reale, dall’altra questo rapporto biunivoco, spesso e volentieri, almeno per quanto riguarda la letteratura, si rovescia in un triangolo. Un terzo elemento, onnipotente e onnisciente, viene a inserirsi all’interno della coppia armoniosa io-mondo. Un pedagogo, dalle fattezze ora rassicuranti del mentore, ora inquietanti del manipolatore, che sembra sempre ricordare come per il secolo la questione educativa non sia affatto un problema risolto, ma piuttosto un nervo a tutti gli effetti scoperto, risultato di una continua frizione, di una tensione ben lontana dal trovare riposo. Diverse saranno le posizioni, le “messe in intreccio”, sia in ambito filosofico che strettamente letterario, di questa frizione. Diverse le rappresentazioni, più o meno consapevoli, di questo nervo scoperto. Una tra le più interessanti e complesse la fornirà naturalmente Sade.
Per il mondo libertino, i rapporti amorosi sono sempre relazioni educative. L’universo libertino, come sottolinea Roland Barthes in Sade, Fourier, Loyola, è un mondo di iniziatori e di iniziati, di tecniche da apprendere e di discepoli da déniaiser. E non solo da un punto di vista della pura e semplice pratica sessuale, ma all’interno di un progetto di vera e propria “educazione al mondo” (un esempio su tutti, la graduale trasformazione dell’ingenua Cécile de Volanges nelle Relazioni pericolose in giovane donna scaltra e disinibita da parte della coppia Valmont-Merteuil).
Anche per i libertini sadiani spesso e volentieri il mondo si divide in due: chi sa e chi non sa, chi detiene un potere di conoscenza e perizia sessuale e chi a questa conoscenza deve ancora accedere (che poi l’accesso avvenga con il consenso o meno dell’interessato poco importa). Se quindi apparentemente il discorso libertino sadiano sembra inserirsi alla perfezione lungo la dorsale educativa che attraversa il secolo, a uno sguardo più attento Sade fa spesso compiere delle torsioni alla coppia maestro-allievo che sembrano mettere in luce tutta la problematicità del tema. Lo farà quasi all’inizio della sua carriera con Justine o gli infortuni della virtù, in cui Justine la “Giusta”, la pura, nulla impara dalle diverse esperienze atroci e dai maestri del Male che il mondo le pone di fronte, ma non fa che ritornare ogni volta al punto di partenza, di fatto incapace di uscire dal portato simbolico del suo personaggio, reiterando all’infinito il proprio percorso iniziatico. Lo farà in modo ancora più articolato e complesso nei Crimini dell’amore, raccolta di romanzi di cui oggi L’Orma ripropone una scelta nella bella curatela di Filippo D’Angelo (pp. 208, € 14, Roma 2014).
I crimini dell’amore, pubblicati nel 1800, vedono un Sade affaticato, minato nel fisico dagli anni di detenzione nel castello di Vincennes e alla Bastiglia, ridotto in miseria dalla confisca dei suoi beni per ordine del Direttorio e estremamente bisognoso di denaro. Come Aline e Valcour e i suoi testi teatrali, anche i Crimini dell’amore fanno parte delle opere avouées, della produzione destinata a circolare liberamente e scritta per un pubblico che Sade si augurava il più ampio possibile. Con questa raccolta Sade sperava di raggiungere un successo pressoché immediato e di poter di nuovo far quadrare il proprio bilancio economico. Se quindi, da un punto di vista strettamente tematico, rispetto a tutta la produzione sadiana di carattere “privato” questi romanzi sono meno crudi, meno violenti in una sorta di patto, di pubblico ossequio alla morale comune, dall’altra, come scrive Filippo D’Angelo nella prefazione al volume, “qui la dirompenza del pensiero e l’audacia della mimesi sono sì smorzate da dispostivi di enunciazione tendenti all’effetto di sordina, ma a beneficio di una contrazione drammatica e di una concentrazione psicologica assenti nello sterminato dominio narrativo conquistato dal marchese nei decenni della sua disgrazia”. Un Sade quindi dalla patina moralizzatrice affettata e messa in bella mostra in prima pagina (mostrare il Male per combatterlo è a grandi linee il senso del suo discorso), ma nello stesso tempo un Sade meno inchiodato agli stereotipi del proprio stesso discorso.
I tre romanzi contenuti nel volume, Eugénie de Franval, Floriville et Courval, Dorgeville, ruotano tutti intorno a un unico tema: l’incesto. Nel più lungo e più articolato dei tre, Eugénie de Franval, un padre libertino si prende cura personalmente dell’educazione della figlia. Man mano che cresce, la plasma a sua immagine e somiglianza, ne modella i pensieri, gli atteggiamenti. Eugénie non vede la realtà che attraverso gli occhi del padre, non conosce il mondo se non mediato dal suo insegnamento. Tra allieva e maestro si crea così un legame indistruttibile, impossibile da sciogliersi perché ordito sulla trama fitta della conoscenza. Il giorno del suo quattordicesimo compleanno Eugénie (quattordici anni sono il termine prima del quale non era lecito il matrimonio e quindi la perdita della verginità di una fanciulla) viene portata dal padre nella sua camera da letto e posta di fronte a una scelta. Sei libera, le dice il padre, di amarmi come un amante così come sei libera di rifiutarmi. Nel momento in cui Franval mette la figlia di fronte alla possibilità di consumare l’atto sessuale con lui, tratta Eugénie come un soggetto libero, sapendo però nello stesso tempo che la libertà della figlia si colloca all’interno di un percorso di manipolazione educativa avviato fin dalla sua nascita.
La risposta della figlia al padre (più che scontata) è quindi frutto di una “libertà mediata”, così come il suo successivo diventare adulta (adulta in quanto soggetto sessualmente desiderante) è il risultato di un’operazione di costruzione culturale più che la vittoria della insopprimibile naturalità della pulsione e degli istinti di cui tutto il romanzo – attraverso i discorsi di Franval – sembra essere il paladino.
Attraverso la figura del padre-mentore-amante, Sade porta così al suo estremo e nello stesso tempo mina le basi stesse del discorso paidetico settecentesco. Attraverso il desiderio incestuoso, attraverso un desiderio naturale (perché al di là della morale e delle leggi imposte dalla società), ma nello stesso tempo frutto di una costruzione educativa decisa a tavolino, Sade mostra in tutta la sua evidenza l’impasse su cui sembra poggiare il discorso di tutto il secolo. Se il Settecento aveva posto l’educazione come collante, anima e regola di qualunque sociabilité, la coppia incestuosa padre-istitutore/figlia-discepola distrugge ogni possibilità di costruzione sociale, minacciando i fondamenti stessi dalla comunità. Non a caso Eugénie rifiuterà violentemente qualsiasi ipotesi di matrimonio (e quindi di apertura verso l’esterno) per richiudersi con il padre in una sorta di microsocietà autarchica. Una microsocietà destinata all’autodistruzione perché persa nell’autoreferenzialità mortifera dell’estasi vuota e del puro godimento.
isabella.mattazzi@unife.it
I Mattazzi insegna letteratura francese all’Università di Ferrara