Effetto placebo
Il “libro del mese” del numero di giugno è un testo di Marzio Barbagli intitolato Alla fine della vita. Morire in Italia. Parlando di questo libro, Bagnasco fa notare che “tratta di temi culturalmente e politicamente scabrosi, importanti perché al centro delle vicende di cambiamento culturale, sui quali si esercitano filosofi, moralisti, storici, opinionisti, ma per i quali il sociologo, con i suoi strumenti, può proporre evidenze fattuali, analisi circostanziate, comparazioni. Sono argomenti sentiti con animo diverso nell’opinione pubblica e fra gli opinion leader, che incontrano ritrosia o invece esagerata partecipazione; argomenti come si dice, divisivi, sui quali si arriva anche a riconoscere in gioco valori non rinunciabili, limiti invalicabili”. Eppure, come fa notare Simone Pollo nella stessa pagina, “per gli esseri umani la morte è un fatto comune e quotidiano. Il pensiero della nostra morte si affaccia spesso in vari modi nelle nostre giornate, e la scomparsa di persone vicine o sconosciute segna le nostre vite. Il primo incontro che in giovane età un essere umano fa con la morte di un congiunto (o di un animale caro) è considerato da sempre un momento di passaggio e di conoscenza di un fatto della vita che muta il proprio modo di sentire in modo irreversibile. Una cosa, infatti, è immaginare la morte, altra cosa è averne esperienza. Questo è vero per la dipartita delle persone che ci sono vicine e vale ovviamente per la propria morte, ma vale anche per il modo in cui la fine della vita è concettualizzata e pensata. E proprio su quest’ultimo punto si dipana il lavoro del sociologo Maurizio Barbagli nel suo Alla fine della vita. Morire in Italia. si interroga, infatti, sulla reale consistenza di alcune idee circa il modo in cui gli esseri umani, e i particolare gli italiani, farebbero esperienza della morte”. Una riflessione molto seria sui luoghi non accessibili in cui spesso si muore, sul rapporto fra il curante e il moribondo, sulle emozioni e le reazioni spesso represse e occultate di chi resta. L’uomo è un animale complesso anche nel momento della fine della vita, vissuto in prima persona o nell’atto della cura o dell’assistenza a una persona cara.
Lo stretto rapporto fra corpo e psiche è anche messo in rilievo, come spiega Fabrizio Benedetti in un “Segnale” pubblicato su questo numero, dallo studio dell’effetto del placebo sui malati: “Oltre all’approccio psicologico, la ricerca sugli effetti placebo e nocebo si è recentemente focalizzata sullo studio dei meccanismi biologici/fisiologici. Gli approcci sperimentali utilizzati sono quello farmacologico, le neuroimmagini e la registrazione da singoli neuroni: lo studio del dolore e del morbo di Parkinson hanno prodotto i migliori risultati. Da un lato, diversi studi sul dolore mostrano il coinvolgimento di differenti sistemi, come gli oppioidi e i cannabinoidi endogeni; infatti, il nostro cervello è capace di produrre sostanze simili all’oppio e alla cannabis quando ci aspettiamo un beneficio terapeutico. Dall’altro lato, gli studi di neuroimmagine hanno esplorato le regioni cerebrali coinvolte nell’analgesia da placebo e nell’iperalgesia da nocebo: è stato osservato come l’analgesia sia collegata a una riduzione di attività nelle aree cerebrali coinvolte nella percezione dolorifica facenti parte della cosiddetta “matrice del dolore”, mentre l’iperalgesia è collegata a un aumento dell’attività nelle stesse aree della matrice del dolore”. Nello strano mondo del placebo tutto è soggetto a misteriosi cambiamenti: un fenomeno che, come spiega il recensore, riguarda l’ambito medico e sanitario, ma è potente anche nello sport e nella vita di tutti i giorni, e spesso falsifica la realtà intorno a noi.
Soprattutto l’effetto placebo ha a che fare con la sensazione di essere visti, curati, accolti, immette in una dimensione di favola e di magia salvifica che rimanda, per associazione di idee, alla vicenda narrata da Alice Rohrwacher nel suo ultimo film, Lazzaro felice, dedicato a un giovane contadino tanto buono da sembrare stupido. Scrive Grazia Paganelli, nella rubrica “Effetto film” all’interno della sezione dei “Quaderni”: “Lazzaro, come dice il suo nome, rinasce e nulla cambia in lui, fiducioso e ingenuo, non cerca tanto il suo posto perché un posto è stato mai davvero necessario (“dove lo metto a dormire adesso che ha la febbre?”, si chiedeva l’amica Antonia quando sorprende il giovane febbricitante e bisognoso di un letto), semplicemente esprime la sua fiducia e l’essenzialità del suo saper sopravvivere. A questo punto il film si rispecchia in lui, semplificando e sottraendo parole e discorsi, e trovando la dimensione espressiva più difficile da realizzare. Perché l’intenzione non è denunciare ma osservare, pensare, immaginare e costruire un’ipotesi di cinema che ha il respiro lieve e aperto, che sa mettere insieme gli opposti e trovare per ognuno un’aura appropriata e docile. Non c’è rivendicazione in queste figure anacronistiche e ingenue anche nel momento in cui truffano una signora o portano le paste all’uomo che li ha ingannati. Non la lotta tra bene e male, ma l’osservazione di come tutto questo è semplicemente presente e coesiste in ogni situazione”.
Molto ricca la sezione dei “Segnali” con un omaggio a Philip Roth a cura di Andrea Carosso, la nuova edizione dei Diari di Byron di cui ci parla Diego Saglia e l’illustrazione, a cura di Eleonora Sparvoli, del periodo della produzione proustiana precedente alla Recherche. Per chi non lo conosce, un ritratto di Arturo Zavattini fra viaggi, fotografia e cinema sempre all’interno della sezione dei “Segnali”. Fra le pagine letterarie, delle indicazioni preziose per il lettore: i testi dispersi di Guido Gozzano a cura di Domenico Calcaterra e una recensione di Vittoria Martinetto a Ritorno alla buia valle che ci conduce alla scoperta dello scrittore colombiano: “Si potrebbe quasi affermare che l’autore applichi alla narrativa il sistema ramificato delle serie televisive: se quello che ci crea dipendenza quasi febbrile nei loro confronti è lo sviluppo approfondito della psicologia dei personaggi e un’attenzione maniacale agli indizi metonimici, Gamboa fa lo stesso qui, prendendosi tutto il tempo per sviluppare quattro traiettorie – e relativi corollari o subplots – narrate in parallelo dalle voci dei loro protagonisti, prima di farle convergere in un’unica avventura finale per la quale fungerà da cerniera il personaggio di Juana, i cui trascorsi si danno per scontati, come alludendo a una “stagione” precedente”. Carlo Lauro ci parla invece della nuova traduzione, dovuta a Luca Salvatore, del capolavoro di Zola, L’Assommoir, settimo tassello del ciclo Les Rougon Macquart: “Fu il romanzo che sancì clamorosamente la popolarità di Zola e al tempo stesso l’avversione di tanta critica. In una prefazione ad hoc, lo scrittore si difese benissimo dalle accuse di immoralità e oscenità che avevano accolto l’opera ancor prima che uscisse in volume. Rivendicò nell’Assommoir “l’opera di verità”, ‘il primo romanzo sul popolo, che non menta e che abbia l’odore del popolo”.
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