Alice Rohrwacher – Lazzaro felice


La santità dello stare al mondo

recensione di Grazia Paganelli

dal numero di giugno 2018

Alice Rohrwacher
LAZZARO FELICE
con Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Sergi López, Nicoletta Braschi
Italia 2018

Lazzaro è un contadino che non ha ancora vent’anni ed è talmente buono da sembrare stupido. La sua vita si incrocia con quella di Tancredi, giovane come lui, ma viziato e incostante, in collera col mondo e con se stesso. Tra di loro nasce un’amicizia insolita e squilibrata, perché alimentata da trame segrete e bugie. Ma è la prima vera amicizia di Lazzaro e, grazie alla sua innocenza, attraversa intatta il tempo che passa e le conseguenze dirompenti della fine del Grande Inganno. Che poi è la seconda linea narrativa di Lazzaro felice, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes e terzo film da regista di Alice Rohrwacher, dopo Corpo celeste e Le meraviglie. Perché tutto comincia con la messa in scena della messa in scena, quella ideata dalla Marchesa Alfonsina ai danni di un gruppo di braccianti, rimasti isolati dopo la caduta di un ponte nelle campagne sperdute del centro Italia. L’isolamento diventa occasione per tenere i suoi contadini all’oscuro della fine della mezzadria (avvenuta realmente in Italia nel 1982) e continuare a impiegarli nella coltivazione del tabacco in condizioni semi-servili. Arriveranno alla verità attraverso strade tortuose e si inseriranno nel mondo in ritardo, restando sempre ai margini della città, ai margini della vita, raccogliendo i resti di una trasformazione tanto importante, che li avrebbe potuti vedere per una volta protagonisti. Una storia che si basa su fatti realmente accaduti e che Rohrwacher ricostruisce a partire da un ritaglio di giornale il cui titolo era, appunto, Il grande inganno.

Quello che conta è la volontà di costruire

“La storia di una piccola santità senza miracoli, senza superpoteri o effetti speciali: la santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente di credere negli altri esseri umani. La possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta, e li interroga con un sorriso”, dice la regista a proposito del suo film, che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes (ex aequo con lo splendido film di Jafar Panahi 3 Faces).
Una favola che sfrutta la realtà di una situazione paradossale per crescere e trasformarsi. La dimensione senza tempo (o, meglio, fuori dal tempo) dell’Inviolata, la tenuta in cui vivono i protagonisti, è il luogo in cui la favola prende forma. Qui il mondo magico di questo film si compone senza nostalgia per il passato, ma con attenzione umanistica ai particolari, al cambiamento radicale che coinvolge tutti senza, tuttavia, intaccare il “francescano” protagonista. Girato tra l’estate e l’inverno del 2017, tra Vetriolo e Bagnoreggio, nel Viterbese, ma anche a Castel Giorgio, in provincia di Terni, e poi ancora a Milano, Torino e Civitavecchia, utilizzando la pellicola super 16mm “per il fascino di una tecnica bellissima che ha influito molto sul metodo di lavoro”, Lazzaro felice rappresenta per la regista toscana l’approdo ad una dimensione filmica cercata nei due precedenti lungometraggi (Corpo celeste, 2011 e Le meraviglie, già premiato nel 2014 a Cannes con il Gran Premio della Giuria) e trovata a partire proprio da una libertà poetica compiuta e solida. Basterebbe “leggere” il manifesto, disegno naïf che raffigura il protagonista nel suo stare placido e inerme, protetto dal lupo e da colori pieni e schietti. È felice Lazzaro in questa piccola comunità di contadini in cui vive, nonostante l’ignoranza della sua condizione. Nessuno sa che il mondo oltre il ponte crollato prevede vite più vere e città e un’organizzazione sociale diversa. Non meno crudele, certo, perché individualismo, povertà, rapacità e marginalizzazione non sono più facili da sopportare dell’inconsapevolezza, anzi, privano la vita di quell’innocenza che Rohrwacher ricerca da sempre. La mitezza dei suoi personaggi è necessaria a spiegare un mondo che oltre ad essere stato cancellato sembra dimenticato e perso nel nulla. Un film politico, pur nel suo essere introverso, in cui non è difficile scorgere i riferimenti all’abuso come modello standard di comportamento, alle storie di sradicamento che portano le persone a spostarsi “da luoghi di ignoranza verso luoghi di dispersione e perdita d’identità”. Non importa se prevalgono l’invenzione e la poesia sulla realtà, se è impossibile identificare luoghi ed epoche storiche (che Rohrwacher mescola e confonde con grande leggerezza e partecipazione), quello che conta in questo film è la volontà di ricostruire quel ponte crollato, che per tanto tempo ha tenuto separato il passato contadino dall’oggi.

Cannes 71: Alice Rohrwacher Lazzaro felice

Lazzaro felice, di Alice Rohrwacher

Che cosa è accaduto tra gli anni ottanta e il 2018 alle persone che hanno abbandonato le terre e si sono spostate nelle città? E che cosa è accaduto alla società di conseguenza? Spariti nelle periferie umili, in bilico tra presente e passato, gli “sfollati” si sono lasciati sradicare dall’illusione di un nuovo corso, mentre noi continuavamo sulla scia del progresso a tutti i costi. Il risveglio di Lazzaro, caduto in un dirupo poco prima che i carabinieri svelassero questo luogo di sfruttamento, ci porta al secondo atto di un film diviso in due parti che si riflettono l’una nell’altra, necessarie l’una all’altra. Incorniciato da due morti e una rinascita, questa seconda parte tende a trasformare in leggerezza di sguardo ciò che prima era limpido racconto di un universo sospeso. Lazzaro, come dice il suo nome, rinasce e nulla cambia in lui, fiducioso e ingenuo, non cerca tanto il suo posto perché un posto non è stato mai davvero necessario (“dove lo metto a dormire adesso che ha la febbre?”, si chiedeva l’amica Antonia quando sorprende il giovane febbricitante e bisognoso di un letto), semplicemente esprime la sua fiducia e l’essenzialità del suo saper sopravvivere. A questo punto il film si rispecchia in lui, semplificando e sottraendo parole e discorsi, e trovando la dimensione espressiva più difficile da realizzare. Perché l’intenzione non è denunciare ma osservare, pensare, immaginare e costruire un’ipotesi di cinema che ha il respiro lieve e aperto, che sa mettere insieme gli opposti e trovare per ognuno un’aura appropriata e docile. Non c’è rivendicazione in queste figure anacronistiche e ingenue anche nel momento in cui truffano una signora o portano le paste all’uomo che li ha ingannati. Non la lotta tra bene e male, ma l’osservazione di come tutto questo è semplicemente presente e coesiste in ogni situazione.
“E se tornassimo all’Inviolata, ormai abbandonata?”, dice ad un certo punto il personaggio interpretato da Alba Rohrwacher, che dopo la scoperta del grande inganno è stata costretta con tutti gli altri a lasciare la terra e a trasferirsi ai margini di una città, a ridosso della ferrovia, cercando di sopravvivere con espedienti e piccoli furti. Tornare sarebbe davvero riprendere in mano il proprio destino e viverlo consapevolmente. Ma è solo un’idea, quel salto all’indietro che ci porta a ripensare a Le meraviglie (dove i protagonisti sceglievano di andare ad abitare cascine da tempo abbandonate), e che colma il vuoto temporale tra il prima e il dopo. Viene in mente The Village di M. Night Shyamalan, solo che qui il passaggio dal microcosmo protetto e fuori dal tempo si consuma al contrario, con l’irruzione del contemporaneo nell’isola (in)felice dei braccianti, la loro dispersione e l’incontro col sapere, mentre Lazzaro vi precipita anni dopo, risorto per intercessione di un lupo, eppure sempre felice nella sua purezza. Parabola semplice e densa di riflessioni umane e sociali, dunque, rappresentazione del grande tradimento del progresso, che resta ancora idea fertile da sviscerare, contraltare non meno efficace del mondo magico di cittiana memoria. Non senza uno sberleffo finale, però, quando Lazzaro va in banca perché siano restituiti i soldi all’amico Tancredi e si scontra davvero con l’arroganza del presente. La sua fionda di legno diventa pretesto per scatenare la vera violenza intorno a lui. Sopraffatto e incompreso, gli viene in aiuto il lupo, animale simbolico, connesso al mondo degli spiriti.

paganelli@museocinema.it

G Paganelli è responsabile della programmazione del cinema Massimo di Torino