Tra meditazione e altri mondi
recensione di Filippo Polenchi
dal numero di giugno 2018
Kareen De Martin Pinter
DIMENTICA DI RESPIRARE
pp. 224, € 14
Tunué, Latina 2018
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“Se trattieni il fiato prima o poi ti ritroverai senza fiato. E sentire l’impellente bisogno di respirare con milioni di litri d’acqua sopra la testa a separarti dalla prima molecola di aria non è la cosa più bella del mondo. Se invece ti dimentichi di respirare, finché stai sotto, finché vivi nell’acqua, allora ce la puoi fare e riuscirai a spingere quel limite più in là”. Si parla di apnea nell’ultimo titolo della collana “Romanzi” dell’editore di Latina Tunué. Ma lo sprofondamento è anzitutto un inabissarsi dello sguardo. La visione cola a picco e trascina con sé immagini fantasmatiche, lampeggiamenti di meduse, il “pesce lanterna”, con “un organo luminoso (…) tenuto come una canna da pesca”, mostri marini, creature del passato. Dimentica di respirare è un romanzo eminentemente visuale, che tenta di stimolare (non sempre riuscendoci appieno, a dire il vero) gli organi sensoriali del lettore. Il respiro è spezzato, sottratto, rapinato dalla scrittura sincopata. Come l’apneista che per i primi 40 metri deve lottare con la propria resistenza a uscire dall’acqua, con la difficoltà della discesa, anche nella scrittura – e percentualmente è più il tempo del romanzo speso sott’acqua che non quello emerso – il ritmo è più percussivo e asfissiante all’inizio e poi, man mano che si supera la soglia, è accogliente, disteso, quasi che l’accelerazione estrema si riversasse in una forma paradossale di quiete suprema. Perché, se di discesa parliamo, dobbiamo capirne la natura. Ricordiamoci che “il mare ti vuole vivo”. Ma è un mare fantastico quello che Giuliano trova ogni volta che affronta la propria catabasi. Un mare lisergico, fluttuante, nel quale lo statuto di realtà è incerto. Un abisso psichedelico attende l’atleta. Il mare vuole vivi perché isola dall’esterno, in qualche modo protegge. Eppur tuttavia la chiusura sottomarina non apre un interstizio mortale.
Ogni desiderio di oblio è, in fondo, un desiderio di morte. Il ritorno all’inorganico, all’annullamento della coscienza può essere letto come un’aspirazione all’autoannientamento. Una liturgia freudiana accompagna santi bevitori lungo i cammini della propria distruzione, ma sempre alla ricerca della parentesi, dell’intervallo oscuro – e dunque invisibile – in mezzo alla buriana. In Dimentica di respirare accade qualcosa di diverso, invece. La discesa non è mai risposta a un richiamo di morte, tutt’altro. La discesa non avanza verso un annullamento, semmai verso un rifugio, verso cioè la costruzione di una comunità/comunione in qualche modo liberata dai vincoli oppressivi della terraferma. È vero che nell’invito a dimenticarsi di respirare si nasconde una disciplina meditativa, una propedeutica all’infrazione del tessuto omogeneo della realtà per buttare un occhio al di là del Velo di Maya, ma è altrettanto vero che proprio dietro a questo bizzarro taoismo degli abissi si nasconde un germe rivoluzionario. Anzi: è proprio grazie al magnetismo di liberazione della mente, incarnato dalle “ama”, donne pescatrici giapponesi che praticano l’antica tattica della pesca in apnea, cercate e incontrate da Giuliano per tutta la vita, è anche grazie a loro che nelle profondità del mare il protagonista possa regolare i conti con qualcosa che travalica il suo orizzonte personale, pur riguardando un dolore intimo lancinante. Perché letteralmente cercare nuovi mondi immersivi è un gesto politico. Non sarebbe altrimenti spiegabile la scelta finale del protagonista, chiamato a rispondere “politicamente” di una questione privata.
filippo.polenchi@gmail.com
F Polenchi è saggista