Il letto, il bagno e la tavola sono luoghi e situazioni democratiche
di Iole Scamuzzi
dal numero di gennaio 2015
David Trueba è un regista e romanziere spagnolo di grande fama in patria, che diventa noto al pubblico internazionale quando, nel 2004, il suo film Soldados de Salamina, basato sull’omonimo romanzo di Javier Cercas, andò vicino a essere scelto come rappresentante della Spagna agli Oscar; quest’anno, dieci anni dopo, rappresenta il suo paese agli Oscar con Vivir es fácil con los ojos cerrados, un film basato sulla storia vera di un professore di inglese amante di John Lennon. Trueba è però anche autore di alcuni romanzi di successo internazionale tradotti in italiano per Feltrinelli (Aperto tutta la notte, Quattro amici, Saper perdere). Lo abbiamo intervistato come scrittore, cercando di capire come le varie anime che compongono la sua personalità artistica interagiscono nel suo laboratorio letterario.
C’è un saggio di Adorno che s’intitola La posizione del narratore nel romanzo contemporaneo, in cui si mette in discussione la pertinenza al Novecento di narrazioni realiste onnicomprensive, come quelle di Galdós o di Manzoni, in cui lo scrittore abbraccia con il suo sguardo onniscente ogni dettaglio del mondo possibile e dei personaggi che lo popolano. Lei che cosa ne pensa? Il romanzo così inteso è davvero tanto inattuale?
Credo che il romanzo rimanga disponibile in tutte le sue forme. Il primo dovere di un narratore è trovare un punto di vista interessante, nel cinema come in letteratura, e mantenervisi fedele. La figura del narratore si tramuta in un prolungamento di questo punto di vista, e il punto di vista in un prolungamento dell’autore, collegando i tre livelli: autore-narratore-personaggi. Nell’arte non esistono norme fisse, però la relazione fra il lettore e il libro è regolata da un codice di onestà che impone che l’accordo sul punto di vista sia coerente all’interno del racconto e con la materia narrata. Molto spesso mi si chiede di che cosa parli un mio libro: il punto non è il tema, che cosa si racconta, ma a partire da chi si racconta. Non esiste una soluzione unica che valga per tutti i libri e tutti i racconti: devi ascoltare quello che vuoi raccontare e mantenerti fedele a quello.
Il punto è creare un patto di rappresentazione convincente e attenersi a quello, qualunque sia?
Certo. A me piace leggere qualsiasi tipo di narrazione: quelle in prima persona, psicologiche e molto soggettive, ma anche le grandi narrazioni alla Manzoni o Galdós, con quell’ironia che può distruggere un personaggio in due parole. L’importante è che il narratore rimanga fedele all’accordo e mantenga il patto di rappresentazione lungo il racconto. Adorno perseguiva una rivendicazione morale dell’atto di narrare che è disponibile a ognuna di queste forme. La questione che non esistano regole universalmente applicabili a ogni tipo di narrazione influenza anche il concetto di stile: l’autore non deve costruirsene uno a priori, rischierebbe di perdersi nella contemplazione della propria immagine in uno specchio e diventarne poi schiavo, incapace di cambiare ed evolvere. Lo stile è la sua forma di esprimersi, ma non serve che lo sistematizzi esplicitamente: alcuni autori famosi ne fanno un sigillo commerciale di riconoscibilità, come l’insegna di un negozio o la marca di un caffè. Lo stile arriva a posteriori e delinearlo è, al massimo, compito del critico, ammesso che sia possibile. Lo stile non si cerca né si scopre, si trova. Scott Fitzgerald e Nabokov, per esempio, hanno uno stile potentissimo, ma i loro romanzi sono molto diversi fra loro, a seconda del tema: variano il punto di vista, mescolano i generi letterari introducendo parti saggistiche e molto altro ancora.
Ha parlato di autori famosi: pensa che la canonizzazione mediatica influenzi il modo di scrivere di un romanziere?
La letteratura, e ancor di più il cinema, insegnano che il successo è un grande nemico. O meglio, l’elogio, quando ci si crede, il convincersi di aver raggiunto un alto livello, impoveriscono incredibilmente le prestazioni di un artista. Il vero lavoro di uno scrittore è tornare alla pagina bianca screditato ai propri stessi occhi. Bisogna isolarsi da ogni certezza e cercare l’impostore dentro di noi: trovare la crepa che fa crollare l’edificio, per solido che sia, e ricostruirlo. Lo scrittore deve tenere a mente ogni volta non la sua carriera, il progredire del suo successo, ma il suo prossimo libro. Quando pensa alla carriera, lo scrittore sbaglia, si rende schiavo dei temi e dei modi consolidati per non deludere il pubblico di sempre. Mentre quello che bisogna cercare è la libertà del ragazzo che scrive la sua prima opera. Mettere in dubbio il guadagnato mostra la caratura dello scrittore: la propria biografia deve poter cambiare dopo ogni prestazione. Il problema della relazione stretta fra letteratura e mercato è che si tende a giudicare gli autori invece dei libri, rendendoli prigionieri del proprio personaggio, e non ci si rende conto che il mito dell’autore è piccolo e caduco, mentre quelli che possono aspirare alla grandezza e all’immortalità sono i libri. Succede anche nel cinema: ci sono registi che ami che da dieci anni fanno la parodia a se stessi per ribadire la propria identità e garantire la sopravvivenza dell’industria di se stessi. L’autore intelligente invece non lascia che sia il mercato a determinare la direzione che prenderà il suo lavoro: nel successo si tratta di stabilire chi è il cane e chi il padrone.
Spesso nelle sue opere parla di giornalisti che sono stati romanzieri. Lei stesso scrive anche per il cinema. Queste tre forme di scrittura s’influenzano reciprocamente in qualche misura?
Influiscono sulla costruzione del punto di vista. Scrivere da giornalista mi ha fatto sviluppare un’attenzione ai dettagli che adesso sono in grado di applicare alla letteratura e al cinema. Al di là di questo, ognuna delle tre arti ha il suo codice. L’esistenza di un codice è un bene: la presenza di elementi condizionanti, come la brevità di un articolo giornalistico, la durata e il costo di produzione di un film, non sono limitazioni, sono utili a migliorare l’opera. Pensare che siano negativi sarebbe come dire che la metrica è un ostacolo alla poesia. Quindi bisogna continuare a distinguere un codice dall’altro, perché ogni forma offre i suoi vantaggi: non bisogna che da un nostro romanzo si capisca che il nostro vero sogno è che venga convertito in un film!
Il romanzo ha, dunque, un futuro autonomo dal giornalismo e dalla comunicazione audiovisiva; eppure la critica letteraria da decenni ne dichiara la morte. Penso di nuovo ad Adorno che diceva che non si più fare letteratura dopo la Shoah, ma anche in tempi più recenti alla sua si sono sommate altre voci. Per esempio, nel suo libro The Second Plane, Martin Amis diceva che dopo l’11 settembre i romanzieri americani erano caduti nel silenzio, oppure si erano dati al giornalismo, perché si rendevano conto che, dopo una tale frattura storica, la fiction sarebbe parsa solo un balbettare autistico. Che ne dice?
Penso che chi grida all’esaurimento del romanzo come genere in realtà cerchi di giustificare in termini generali l’esaurimento della propria vena creativa particolare, e direi che gli ultimi romanzi di Amis confermano questa teoria. Lo scrittore catalano Josep Pla disse una volta che i romanzi si leggono solo fino ai quarant’anni; dopo si preferiscono i saggi e i documentari. È un’altra espressione del medesimo concetto: parlano della paura della propria morte e del proprio invecchiamento, non del destino del romanzo. Il loro discorso ha a che fare con loro stessi più che con il mondo: penso lo stesso dei fatalisti, che annunciando l’inemendabilità del reale in realtà dichiarano solo la propria stanchezza. Le fratture della storia non c’entrano: il romanzo non è “ottocentesco”, è romanzo; ci sono romanzi molto semplici e romanzi molto complessi, ma si dividono in belli e brutti, senza altre categorie. Certamente si possono attraversare periodi di crisi: la Francia degli anni ottanta e novanta, per esempio, dopo la morte di grandi artisti come Albert Camus, Marguerite Duras, Georges Simenon, ha patito una crisi radicale della letteratura di finzione, ma adesso invece si percepisce una nuova vitalità. I paesi attraversano periodi di esaurimento, ma poi risorgono con nuova energia. Il romanzo muore solo se nessuno vuole più scrivere romanzi.
Fintantoché si scrivono romanzi, di qualunque natura, il genere resta vitale. In sintesi, Sophie Kinsella e Harry Potter ne sono la garanzia di sopravvivenza?
La volgarizzazione che alcuni libri sembrano incarnare non è un male: è sempre meglio dell’assenza completa di lettura e scrittura. E comunque bisogna smetterla di sforzarsi sempre di categorizzare i fenomeni culturali: Harry Potter ha funzionato fra i ragazzini quando si pensava che questi fossero solo più interessati ai videogiochi e alla televisione, e ha sbugiardato fior di teorici. La storia della letteratura molto spesso ha dovuto smentire se stessa e lo stesso è avvenuto nel cinema: molti film disprezzati come popolari si sono convertiti in classici nazionali. Non mi stanco mai, quando si parla di volgarizzazioni, di ricordare che le nostre lingue nazionali sono state tutte il volgare del latino.
Passiamo, per concludere, dal “volgare” al carnevalesco, e parliamo di cibo: ho notato con piacere che in alcuni suoi scritti valorizza l’importanza del cibo nella caratterizzazione dei personaggi. Come saprà, la critica letteraria ha riflettuto molto su questo tema: E.M. Forster diceva che i personaggi e gli esseri umani si distinguevano perché i primi mangiano solo nelle occasioni sociali, mentre i secondi passano a tavola una parte apprezzabile della loro vita. Lo stesso diceva Don Chisciotte a Sancho Panza nel tentativo di accaparrarsi una sua cipolla e una fetta di pane: i cavalieri erranti mangiavano solo ai grandi banchetti in loro onore, mentre gli “uomini come noi” devono fare buon viso a cattivo gioco e mangiare quel che c’è quando arriva la fame. Secondo lei qual è il ruolo del cibo nella finzione?
Con il cibo, rivendico in generale il dato organico nel ritratto del personaggio, e non necessariamente in senso carnevalesco. In Madrid 1987 dicevo che mi piace che i personaggi mangino, perché in generale i personaggi dei film non mangiano e non lavorano: vivono d’aria e di pensieri. Io invece trovo che un piatto di uova fritte valga più di mille astrazioni. Seguire un personaggio nel modo in cui risolve pranzo e cena quotidianamente, vuoi preparando un pasto completo a tutta la famiglia, vuoi addentando un panino appollaiato al bancone di un bar, dice di lui più di quanto sarebbe spiegabile a parole, e per di più le parole possono mentire, mentre la tavola non inganna mai: i nostri disordini alimentari ci definiscono più di quanto pensiamo. Però quello che mi interessa è il cibo quotidiano, non la spettacolarizzazione dell’alta cucina che va di moda adesso. Uno chef in un ristorante stellato è la museificazione del cibo: a me interessa il nutrirsi prosaico di tutti i giorni. La crisi in un certo senso l’ha riportato in primo piano. Adesso, se un ragazzo vuole conquistare una fanciulla, gli viene in mente di mettersi ai fornelli e prepararle una bella orata al sale, mentre qualche anno fa non avrebbe esitato a portarla al ristorante: cucinare è diventato un modo di far piacere e di sedurre, molto contemporaneo e molto bello. In sintesi, il letto, il bagno e la tavola sono luoghi e situazioni democratiche, che mettono sullo stesso piano il vecchio e il giovane, l’uomo e la donna, il saggio e lo stolto, e come tali devono avere un ruolo nella narrazione perché essa possa dirsi realistica e completa.
arichel@hotmail.com
I Scamuzzi insegna letteratura ispanica all’Università di Torino