Una cospirazione tardocapitalista
di Riccardo Fassone
dal numero di maggio 2018
Steven Spielberg
READY PLAYER ONE
con Tye Sherida, Olivia Cooke, Simon Pegg, Mark Rylance
Usa 2018
Nel suo memoir Movie Nights with the Reagans, l’ex-capo ufficio stampa della presidenza Reagan Mark Weinberg riporta l’abitudine della coppia presidenziale di organizzare una movie night settimanale a Camp David, alla presenza di una cerchia ristretta di collaboratori. Per ovvi motivi, molti dei film selezionati dai Reagan erano classici della Hollywood degli anni quaranta e cinquanta, tra cui il non indimenticabile Le pantere dei mari, unica pellicola in cui compaiono sia Ronald che Nancy. Tuttavia, Weinberg riporta un aneddoto curioso relativo a un film contemporaneo. Secondo l’autore, dopo aver visto WarGames-Giochi di guerra nel 1983, Reagan chiese di incontrare i suoi consiglieri militari per chiedere loro se lo scenario ipotizzato dal film di John Badham fosse stato in qualche modo plausibile. WarGames racconta di un giovanissimo hacker che, giocando a un videogioco a tema militare, rischia di scatenare una vera guerra nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’escalation bellica è scongiurata soltanto dall’intelligenza del ragazzo, che riesce a resettare il computer fornendogli istruzioni contraddittorie e inattese. È plausibile che gli strateghi reaganiani abbiano rassicurato il presidente circa la possibilità del riscaldarsi della guerra fredda a causa di un videogiocatore adolescente. Tuttavia la popolarità del film di Badham (e di molti altri ad esso contemporanei, ad esempio Tron, 1982) è una testimonianza della capacità di alcuni film dei primi anni ottanta di intercettare l’interesse, inevitabilmente venato di apprensione, del cinema americano verso il videogioco: un medium relativamente nuovo che con Hollywood avrebbe avviato un dialogo fatto di integrazione e competizione, affiancamenti e sorpassi, i cui effetti sono ancora visibili.
Nella realtà virtuale e ludica di Oasis
Trentacinque anni dopo WarGames e Tron, Ready Player One, il film di Steven Spielberg tratto dall’inaspettato bestseller di Ernest Cline, sembra affermare che, nonostante cinema e videogiochi si siano trasformati in modo radicale, i modi per raccontarne l’incontro sono, in fondo, sempre gli stessi. Il film di Spielberg ipotizza un futuro prossimo in cui una larghissima fetta della popolazione mondiale passa più tempo immersa in un mondo virtuale che in quello reale, che è a dire il vero piuttosto deprimente. Dotati di occhiali e guanti per la realtà virtuale, miliardi di giocatori accedono ogni giorno a Oasis, un incrocio tra un videogioco e un social media in cui ognuno può essere quello che vuole: pilota di auto da corsa, cacciatore di taglie, mago, playboy. Il creatore di Oasis, il leggendario game designer James Halliday, prima di morire ha affidato a tutti i giocatori una missione: trovare le tre chiavi che egli stesso ha nascosto nel gioco, per poter riscuotere una ricompensa eccezionale. Wade, nei panni del proprio avatar Parzival, si metterà alla ricerca dei tre segreti con l’aiuto di una banda di giocatori e, nel farlo, troverà sulla sua strada Nolan Sorrento, amministratore delegato della Ioi, l’azienda che tenta di impadronirsi di Oasis per farne una sorta di immenso spazio pubblicitario. Le premesse, dunque, non sono tanto diverse da quelle di WarGames o Tron: la sostituzione della realtà reale con una realtà ludica è il punto di fuga inevitabile del videogioco. D’altra parte, il film di Spielberg sembra pervenire a conclusioni politiche diverse sia dal millenarismo da guerra fredda di WarGames che, ad esempio, dalla distopia cyberpunk di eXistenZ di David Cronenberg (1999). Il conflitto in Ready Player One è tra i giovani giocatori, rappresentati come una comunità di spiriti liberi, sottili sabotatori dello status quo, e il sistema industriale, che persegue rabbiosamente il profitto, a scapito della creatività.
Un dualismo – presente con tutta evidenza anche in Tron – che dimostra come i videogiochi messi in scena da Spielberg si siano adattati alle molte retoriche che il medium ha generato negli ultimi trent’anni. Ad esempio, Ready Player One sembra votato, come molta della game culture che rappresenta, a un paradossale culto dell’autore. Certo, i giocatori sono i protagonisti del film, ma la figura dell’enigmatico autore Halliday, un po’ santone digitale, un po’ genio sociopatico, è una specie di manifesto antropologico di quella Californian ideology su cui si fonda, nemmeno troppo metaforicamente, l’intera Silicon Valley. Apparentemente opposto all’aziendalista Sorrento, una macchietta in giacca e cravatta negata per i giochi e interessata solo al denaro, il demiurgo di Oasis è la fantasia adolescenziale del creatore geniale e disinteressato, “un giocatore come noi”. Peccato che il noi che Spielberg mette in scena sia, a sua volta, una costruzione retorica piuttosto sgradevole: il giocatore-funambolo, capace di domare il gioco e gli avversari, che di fronte alla possibilità di essere ciò che vuole nel mondo di gioco, sceglie di travestirsi da citazione frusta di un’icona pop degli anni ottanta. Insomma, il player one presupposto dall’industria del videogioco negli ultimi trent’anni: un post-adolescente che conosce a memoria le battute di Ritorno al futuro e passa le giornate a umiliare i principianti on line.
Gli easter egg in Ready Player One
Uno dei motori narrativi di Ready Player One è, come detto, l’invito lasciato da Halliday ai giocatori a cercare gli easter egg, i passaggi segreti, disseminati dall’autore di Oasis nel mondo di gioco. Anche questo è un riferimento a una certa politica degli autori videoludica, dal momento che il film, con apprezzabile sguardo filologico, riconduce la pratica di nascondere segreti all’interno del gioco a Warren Robinett, il game designer che per primo nascose la propria firma nel videogioco Adventure. Ma volendo forzare l’interpretazione e utilizzare la figura dell’easter egg per leggere l’intero film, si potrebbe pensare che Ready Player One contenga almeno due “livelli bonus”: uno certamente esplicito e l’altro decisamente involontario. Il primo è rappresentato dalla più importante licenza che Spielberg si concede rispetto al testo di Cline. Una delle prove riservate ai giocatori che vogliano scoprire i segreti di Halliday è quella di affrontare una ricostruzione accuratissima dell’Overlook Hotel di Shining, in cui l’improbabile squadra di avatar guidata da Parzifal dovrà incontrare una vecchia fiamma del leggendario game designer. In un film in cui le citazioni si affastellano e si trovano in costante rotta di collisione, in cui Ray Harryhausen convive con le tartarughe ninja e i soldati spaziali di Halo marciano insieme a Gundam, la sequenza dedicata a Shining ha un respiro autonomo, una deliberata eccentricità. Insomma, in un film costruito su una sorta di determinismo del copyright – Spielberg ha potuto rappresentare o citare solo quelle proprietà intellettuali per le quali ha ottenuto una licenza – l’omaggio a Shining sembra essere la versione spielberghiana della stanza di Robinett in Adventure. Una firma in mezzo al marasma.
Il secondo, e forse più interessante, easter egg di Ready Player One è uno dei suoi attori. Simon Pegg, noto per L’alba dei morti dementi e la saga di Mission Impossible, interpreta Ogden Morrow, socio di Halliday che condivide l’idealismo un po’ naïf dell’amico, ma ha deciso di farsi da parte. Si tratta di un personaggio tipicamente spielberghiano, un tramite tra l’intuito vitale ed esuberante degli adolescenti e il pragmatismo degli adulti. Tuttavia, Pegg è anche l’autore di un articolo, apparso sul suo blog nel 2015, in cui l’autore afferma che “la cultura nerd è il prodotto di una cospirazione tardocapitalista, progettata per infantilizzare i consumatori ed esercitare un controllo non aggressivo”. Insomma, secondo Pegg, le comunità di fans – dai trekkies ai beliebers – sarebbero vittime di un sistematico raggiro volto a costruire un attaccamento emotivo rispetto a pratiche di consumo altrimenti del tutto superflue. Sebbene la posizione vagamente neomarxista di Pegg sia forse eccessivamente radicale, leggere Ready Player One come un’enorme truffa alla quale il pubblico designato del film – i trentacinque-quarantenni maschi che hanno accarezzato le stesse fantasie di controllo incarnate da Parzifal – si sottopone volontariamente, può avere un merito. La comodità di immaginarsi il player one, immerso nei propri rassicuranti riferimenti culturali, convenientemente a portata di acquisto, ci (chi scrive è esattamente quel trentacinque-quarantenne) impedisce di immaginarci player two.
riccardo.fassone@gmail.com
R Fassone è assegnista di ricerca all’Università di Torino, dove si occupa di videogiochi, cinema e media digitali