Dinamiche di potere tra sguardi, oggetti e dettagli
di Hamilton Santià
dal numero di aprile 2018
Paul Thomas Anderson
IL FILO NASCOSTO
con Daniel Day-Lewis, Lesley Manville e Vicky Krieps
Usa 2017
Controllo. Ossessione. Precisione. Mania. Potere. Sono solo alcune delle parole che vengono in mente dopo aver visto Il filo nascosto, ultimo film di Paul Thomas Anderson. Incentrata sul rapporto tra lo stilista Reynolds Woodcock (un Daniel Day-Lewis al solito magistrale, alla sua ultima prova avendo lui annunciato di voler smettere con la recitazione) e la musa/amante/moglie Alma Elson (Vicky Krieps), la vicenda si muove con calibrata ricercatezza nei territori di mentalità disturbate e disturbanti nella Londra post-bellica, sullo sfondo di un’Europa ancora sospesa tra la decadenza che ha determinato le condizioni del secondo conflitto mondiale e l’ostentata opulenza di chi vuole dimostrare di aver superato “l’ora più buia”. Non essendo un film di trama, Il filo nascosto costruisce la sua dinamica attorno a un personaggio, lo stilista, che come vedremo rispetta tutte le caratteristiche dei protagonisti di Paul Thomas Anderson e una sua controparte, al tempo stesso antagonista e alleata, che cerca di manipolarlo alle sue esigenze.
La ripresa di un discorso
Reynolds Woodcock è il pivot della moda londinese. Siamo negli anni cinquanta, prima delle tendenze swinging e nel pieno di quella ricerca del “classico” che, nella moda come nelle arti, permette agli oggetti di uscire fuori dal flusso del tempo, slegandosi dalle contingenze e dai contesti. La ricerca di Woodcock è tutta lì: nel creare abiti che non siano alla moda e non siano chic (concetti cui il protagonista è assolutamente ostile). Per questo, non sembra vivere la città – Londra è un fantasma che sta sempre fuori dalle finestre: diversa dalla Los Angeles di Magnolia, ad esempio, che del film era vera protagonista – e non è interessato a nessun tipo di interazione che non sia funzionale al lavoro. È un workaholic che non stacca mai, e che tiene alla sua precisissima routine come niente altro al mondo (forse addirittura più della sorella/matrigna Cyril, personaggio perfettamente hitchcockiano interpretato da Lesley Manville). Anche le ragazze di cui si circonda, fidanzate fino a che la passione non appassisce, sono considerate dei manichini più che altro funzionali alle sue ossessioni stilistiche. Il film infatti si apre con un monologo di Alma che, parlando a quello che poi si scoprirà essere il dottor Hardy (Brian Gleeson), dice di aver dato a Woodcock esattamente quello che voleva, e cioè “Ogni pezzo di me”.
Il filo nascosto rappresenta per Paul Thomas Anderson la ripresa di un discorso solo momentaneamente sospeso con Vizio di forma, il film del 2014 tratto da Thomas Pynchon. Se vogliamo, possiamo inserire questo film in un filone che rappresenta una “seconda fase” di carriera del regista californiano. Un filone in cui Anderson non è più interessato a descrivere la complessità della società umana nella rappresentazione ultima delle babilonie contemporanee (Boogie Nights e Magnolia), ma a indagare i recessi della psicologia di personaggi grandiosi, oltre la vita stessa. Non è un caso infatti che da qualche anno a questa parte, uno dei registi contemporanei che più si era fatto carico dell’eredità della new Hollywood (riprendendo in tutto e per tutto gli stilemi e le progettualità di Robert Altman) si è concentrato su periodi storici lontani, proiettando i suoi personaggi fuori dalla storia. Questo film rappresenta una sorta di terzo capitolo assieme a Il petroliere del 2007 e The Master del 2012. Tornare al passato permette a Paul Thomas Anderson di acquisire una certa libertà: slegato dalla contingenza, si può concentrare sia a costruire personaggi complessi che dialogano solo formalmente con il periodo storico in cui sono incastonati, ambendo quindi a una istantanea “classicità”; sia a operare evoluzioni stilistiche che si sganciano dall’idea – ormai decisamente archiviata – del regista dei lunghi piani sequenza.
È come se dopo aver concentrato la sua attenzione sulla totalità, cercando nei piani sequenza torrenziali che legavano le storie dei personaggi babilonesi di Boogie Nights e Magnolia di catturare l’essenza attraverso uno stile che accompagnava questa ricerca avvicinandosi ai territori del flusso di coscienza, adesso Anderson cercasse di mettere a fuoco ogni singolo dettaglio. Per questo il suo cinema sta diventando di una precisione sempre più millimetrica. È una macchina da presa “saggia”, che privilegia il dialogo tra i personaggi con gli oggetti circostanti. Il ritmo è rallentato fino alla sua sospensione (Il filo nascosto è a tratti di una lentezza al limite dell’estenuante), perché quello che importa sono gli sguardi: come Woodcock osserva i tessuti, come osserva il corpo di Alma, man mano che ci si addentra nella sua psicologia, le reazioni di Alma; e come Alma guardi gli oggetti con cui ha a che fare, manichini, modelle, cibo e come lei stessa guarda – con una reverenza carica di determinazione – sia Woodcock, sia la sorella Cyril; come la sorella Cyril osservi il mondo che ha lei stessa costruito dentro la maison rendendolo un orologio perfetto a servizio della genialità di Woodcock. Sguardi. Oggetti. Dettagli.
Manipolazione e potere
Come Il petroliere prima e The Master poi, inoltre, Il filo nascosto è anche (e forse soprattutto) un film sulla manipolazione e il continuo ribaltamento delle dinamiche di potere. Come il petroliere Daniel Plainview (ancora Daniel Day-Lewis, che per questa interpretazione vince il suo secondo premio Oscar) entra in una spirale di dipendenza e ossessione con Eli Sunday (Paul Dano); come the master Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman) esercita un potere coercitivo nei confronti del succube Freddie Quell (Joaquin Phoenix) venendo però al tempo stesso manipolato dalla freddissima moglie Peggy Dodd (Amy Adams); così il triangolo tra Reynolds Woodcock, la sorella Cyril e la musa e partner Alma di Il filo nascosto ribalta costantemente i rapporti di forza. Prima Woodcock sembra in assoluto controllo di qualsiasi situazione; poi è la sorella Cyril a determinare tutte le dinamiche all’interno dell’universo dello stilista; infine è Alma che, entrando dentro la psicologia traumatizzata e malata del protagonista, rompe la catena e rovescia a suo favore il potere.
Se a inizio film Woodcock è freddissimo, ostinato, calcolatore, ossessionato dal suo lavoro e fedele a una routine militare e repressiva proprio per rispettare l’idea assoluta del suo ruolo nel mondo (grazie al quale si è emancipato socialmente, diventando ricchissimo, ma che non gli ha mai permesso di superare il trauma della morte della madre, che voleva solo rendere fiera di lui), l’arrivo di Alma, incontrata per caso in un ristorante in campagna e portata nella maison come nuova musa, comincia a scombinarne il mondo. Niente di positivo o di romantico, niente My fair lady, ma un continuo e sottile gioco di vittima e carnefice che cambiano costantemente. Alma rompe la routine; Alma affronta Cyril, custode del mestiere e coordinatrice di tutto il lavoro (prima antagoniste, infine alleate); Alma scompagina il meccanismo per avere ella stessa successo sulle sue stesse ossessioni: piegare a sé la volontà di un uomo non piegabile. Quando Woodcock capisce la macchinazione finale che Alma mette in atto, non solo la accetta, ma si rende conto – e lo fa attraverso l’unico sorriso davvero “sincero” che il personaggio regalerà in tutto il film – che questa è l’unica via attraverso la quale può restare in qualche modo umano. Crollare, cedere, rischiare la morte, lasciar andare l’emotività, affidarsi completamente alla moglie sabotatrice per poi ritornare al suo meglio. Anche in questo, personaggio larger than life.
Paul Thomas Anderson qui costruisce un vero e proprio thriller psicologico senza “thrill”. Guarda ad Alfred Hitchcock e Joseph Losey (riferimenti ovvi, certo, ma non per questo meno pregnanti), da cui prende la capacità di far filtrare le contraddizioni psicologiche sottilmente, per accumulo, non disdegnando un colpo di scena. Ultima considerazione per la musica, affidata per la quarta volta al chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood, che qui abbandona l’ostinatezza rumorista di Il petroliere e l’avanguardia minimale di The Master per muoversi in territori più propriamente classici. Anche in questo caso, la suggestione è quella di creare un mondo fuori dal tempo, in cui la vicenda può svilupparsi in tutta la sua profondità concentrandosi sui personaggi senza preoccuparsi di tutto quello che sta succedendo là fuori.
hamilton.santia@unito.it
H Santià è cultore della materia in storia del cinema presso l’Università di Torino