Le donne di Cabras
di Francesco Pettinari
dal numero di marzo 2018
Laura Bispuri
FIGLIA MIA
con Valeria Golino, Alba Rohrwacher, Sara Casu, Michele Carboni, Udo Kier
Italia, Svizzera, Germania 2018
Dopo un esordio importante, l’opera seconda è sempre uno scoglio non facile da superare. Laura Bispuri, con il suo secondo lungometraggio presentato in concorso all’ultima edizione della Berlinale, non è entrata nel palmarès ma ha ricevuto molti consensi, più dalla critica straniera che da quella italiana – un dato, questo, molto preoccupante. La regista romana, quarantenne, non ha voluto sorprendere, ha lavorato all’insegna di una continuità che dimostra un’idea forte e definita di cinema, sia nei contenuti che nella forma. Già nel 2015, con Vergine giurata, Bispuri aveva partecipato con successo al concorso berlinese: tratto da un romanzo di Elvira Dones, il film era ambientato in una comunità montana dell’Albania, un mondo arcaico e maschilista dove, in assenza di eredi di sesso maschile, una ragazza rinuncia a essere femmina e a ogni forma di rapporto amoroso per acquisire i diritti di un maschio, salvo poi, fuori da quel mondo, comprendere che la libertà non può avere come prezzo la prigionia del proprio corpo.
La questione femminile, non celebrata in nome di un idealismo standardizzato ma indagata in contesti inattesi, attraverso il confronto con forme di cultura distanti ma allo stesso tempo collegate a problematiche urgenti della contemporaneità, affiancata all’uso tematico del paesaggio, è al centro anche di Figlia mia. In questo caso, per offrire un ritratto della complessità della figura materna e per mettere in discussione il dogma della maternità, Bispuri ha guardato alla Sardegna selvaggia e aspra di Cabras e di altri piccoli centri delle province di Oristano e di Nuoro. Un contesto antropologico ed etnografico, questo, in cui sono fortemente radicate tradizioni arcaiche come quella dei “figli dell’anima”: usanza per cui a una coppia che non ha figli viene in soccorso una coppia prolifica, che affida, che presta – perché possa sempre rivendicarne il diritto di appartenenza – uno dei figli ai due che sono senza, ignorando ogni forma di burocrazia; tale comportamento di compensazione delle mancanze della natura vale, peraltro, anche per il bestiame.
Un patto femminile
Nel film, scritto dalla regista insieme a Francesca Manieri, due donne hanno stipulato un patto: Angelica (Alba Rohrwacher) ha affidato, sin dalla nascita, sua figlia Vittoria (Sara Casu, magnifica) a Tina (Valeria Golino) e al marito (Michele Carboni), in cambio di un costante aiuto economico. Nell’estate dei suoi dieci anni, la bambina scopre – conosce e riconosce – la madre biologica: la drammaturgia è incentrata quindi sulla rottura del patto e sulla conseguente frantumazione dell’equilibrio, peraltro precario, del prima. In relazione al contendersi drammaticamente l’affetto di una figlia, i caratteri delle due madri sono stati costruiti in maniera decisamente contrapposta: Tina, la madre adottiva, è amorevole certo, ma anche morbosa fino a voler stabilire con Vittoria un rapporto simbiotico, per paura di perderla; invece Angelica è un’anima persa, beve troppo, per bisogno di affetto si concede a uomini che la sfruttano soltanto sessualmente: la razionalità moralistica e il pregiudizio la vorrebbero incapace, sia psicologicamente sia fisicamente, di crescere una figlia, ma quando la bambina, che all’inizio la chiama “signora”, le si avvicina e capisce, da sola, che quella è sua madre, senza che nessuno glielo spieghi, Angelica avverte che, pur nella sua maniera sregolata, anche lei è capace di amare e può essere riamata a sua volta.
Sembrerebbe che Tina abbia in mano le redini della situazione, in quanto Angelica sta per perdere la casa, dovrebbe vendere le sue amate bestie e partire per il continente, ma il conflitto non si risolve con il prevalere dell’una sull’altra: è Vittoria a ristabilire un nuovo ordine delle cose, perché lei vuole tenersele entrambe, le sue mamme, e spetterà a loro mettersi in discussione e accettare questa famiglia allargata, dove il peso del legame di sangue e quello del legame adottivo vengono a trovarsi sullo stesso piano.
L’ottima direzione delle due attrici protagoniste e di tutto il resto del cast composto principalmente di persone selezionate sul luogo; la messa in scena sobria e asciutta, con l’utilizzo della macchina da presa a mano per ottenere un realismo di stampo documentaristico – alla Dardenne – senza concessioni a nessuna forma di estetismo preconfezionato; la fotografia ruvida e sgranata di Vladan Radovic; la composizione narrativa fatta di strappi netti, di cesure e di ellissi, che intenzionalmente non danno luogo a un racconto fluido e prevedibile; soprattutto, uno sguardo che si limita a mostrare, ma che non giudica – e chiede di fare altrettanto allo spettatore: per tutti questi aspetti, Figlia mia è un film pregevole, seppure non perfetto; non è un film riempi-sala, bensì un esempio del miglior cinema d’autore italiano – quello che si ritrova nelle selezioni dei più importanti festival cinematografici internazionali.
fravaz_tin_it@hotmail.com
F Pettinari è critico cinematografico
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