Albe lebbrose
recensione di Filippo Polenchi
dal numero di marzo 2018
Roberto Bolaño
LO SPIRITO DELLA FANTASCIENZA
ed. orig. 2016, trad. dallo spagnolo di Ilide Carmignani
pp. 206 , € 18
Adelphi, Milano 2018
Roberto Bolaño è un desiderio, uno spettro vagante che continua a lasciare messaggi. Chiunque sia venuto a contatto con il culto che lo circonda sa bene che le pubblicazioni in vita (è morto nel 2003, a soli cinquant’anni) sono state soltanto una parte di quello che palpita nell’incubatoio sotterraneo dello scrittore. Hard disk, quaderni, manoscritti e appunti.
Dal 1984 emerge ora anche questo Lo spirito della fantascienza, romanzo sul quale probabilmente mise le mani a più riprese nel corso del tempo. Si è detto di tutto su questo romanzo e non si possono che ribadire alcuni punti-chiave: la struttura a frattale che conferma la presenza della macro-opera anche nel particolare oggetto narrativo; la sorprendente maturità e freschezza finanche dell’esordio; la prefigurazione di molti personaggi che torneranno nelle successive opere (in Notturno cileno, Stella distante, I detective selvaggi ecc.). E ancora: Città del Messico, con le sue albe “lebbrose”, le notti infinite, la poesia, uno strepitoso grand tour d’amore fraterno per i bagni pubblici della città, con epifanie comunitarie di orge al vapore. Lo spirito della fantascienza è un romanzo complesso, nonfinito, frammentario. Si alternano tre vicende: le lettere che il diciassettenne Jan Schrella scrive ad affermati scrittori di science fiction (fra i destinatari c’è anche la recentemente scomparsa Ursula K. Le Guin si veda in questo numero p. 5); un’intervista condotta da una giornalista a un futuro Jan, che ha scritto un romanzo (di fantascienza) premiatissimo; le vite cortazariane di Jan e del ventunenne Remo Morán (anche narratore di questa sezione) che abitano in un minuscolo e gelido appartamento: notti insonne, febbrili, passate a scrivere poesie e lettere, storie d’amore e di poesia, José Arco come Han Solo, complotti che ruotano intorno a riviste di poesia. Bolaño ha saputo raccontare, come pochi, la gioventù: la paura, il gelo sulla pelle, sulla fronte, la febbre che agghiaccia, ma alla cui origine c’è un incendio, “il tragitto in un DF notturno su taxi che tracciavano figure geometriche, canzoni rancheros alla radio, la precisione delle ore piccole messicane”.
In pochi l’hanno saputa dire così, con tenerezza e violenza, con grazia e con la magia di uno stile che mentre galoppa a ritmo forsennato sorprende con fendenti di luminoso lirismo, in virtù di un tirocinio urbano e poetico mai soppresso. Per forza di cose con Lo spirito della fantascienza siamo alla fase aurorale di un grande scrittore: il meglio avrà da venire, ma per molti aspetti è già qui. L’esistenza decentrata e dissipante dei Detective selvaggi è già nelle notti affamate di Jan e Remo. Il male del mondo è già nei disperati e ironici appelli che Jan scrive nelle sue lettere e del resto L’eternauta è lì a ricordarci che ogni colpo di stato, ogni violenza militare e istituzionale sono sempre corpi alieni che piovono dal cielo.