La fantascienza serve a misurarsi con il dubbio
di Nicoletta Vallorani
dal numero di marzo 2018
Alcuni scrittori sono ragnatele di luce, mappe che illuminano un paesaggio altrimenti sconosciuto. Ursula K. Le Guin appartiene a questa categoria, e il fatto che se ne sia andata da questo mondo il 22 gennaio scorso non la rende meno presente, al centro del disegno e nel rapporto col suo pubblico. La cosa bella delle ragnatele è che non hanno un inizio o una fine. Non c’è un modo “giusto” e “sicuro” di seguirne i fili. Così è con gli scritti di Le Guin: da qualunque parte si entri, si scopre un mondo, e si impara ad ascoltare il suono delle cose, che a volte è musica e a volte rumore, ma sempre coesistenza di opposti. Molti ne ricorderanno la tenace fragilità in una delle ultime apparizioni pubbliche, il 19 novembre 2014. La cerimonia di assegnazione del prestigioso National Book Award la vede diritta dietro il podio e davanti a un microfono, per nulla intimorita, pronta a fare il discorso breve e potentissimo che verrà poi pubblicato sul “Guardian” e rimbalzato in rete in varie traduzioni. Anche in quello, la scrittrice descrive un cerchio argomentativo, articolando un ragionamento in cui ogni parola significa quel che deve e nulla di diverso, e pone assunti semplici ma coraggiosissimi. E parla al plurale, usando un “noi” inclusivo mai scontato né sconfitto dall’infezione egoriferita di molti profili di intellettuali oggi famosi. È proprio questo “noi” inclusivo a rivelare un’idea precisa di scrittura (e di arte) come vocazione estetica, ma anche e soprattutto come mandato sociale e politico.
I primi passi
Ho l’impressione, da scrittrice e da studiosa, che Ursula Le Guin sia stata il medesimo genere di persona fin da studentessa, al Radcliffe College. Spazio liminale destinato alle donne nella prestigiosa Università di Harvard, il Radcliffe era allora un laboratorio curioso, un misto di arte, plutocrazia e patriarcato: il luogo ideale, insomma, per cominciare a pensare di farsi scrittrice, e scrittrice di fantascienza. Pur di famiglia non priva di mezzi e per certo di apertura mentale insolita (il padre è antropologo, mentre la madre è scrittrice), Le Guin è nata nel 1929, ha conosciuto bambina la grande Depressione, ha vissuto da adolescente l’atmosfera tesa del secondo grande conflitto mondiale, e sa bene – per esperienza diretta e indiretta – quali siano i limiti a ciò che una donna può fare nella pur “evoluta” società nordamericana. Sa anche bene che non molte strade sono aperte per una donna. È consapevole della specificità della sua esperienza, ma anche del mondo che la circonda, e coltiva una predisposizione innata a combinare la conoscenza della grande storia con una sensibilità per piccole vicende individuali. Esse diventeranno la tessitura primaria della sua creazione narrativa.
Gli anni settanta, tempi complicati anche quelli, la vedono emergere con una voce già definita, con radici profonde in una formazione auto-condotta, indipendente da un’accademia che Ursula Le Guin non ha mai corteggiato. Non è da sola, anche perché sembra incapace di concepire un mandato creativo che non sia anche politico. La affiancano voci nuove e importanti, complicità fortunate, e in alcuni casi, profonde con scrittori come Samuel R. Delany, Thomas M. Disch, Roger Zelazny, Darko Suvin. Intanto altre donne arrivano alla scrittura di fantascienza, in modi diversi, ma con la medesima, indomabile resilienza. Con lei, James Tiptree jr., Joanna Russ, e, appena un attimo dopo, Octavia Butler rivendicano con chiarezza la rilevanza sociale del mestiere di scrittore.
Le Guin è tra le più prodighe di prese di posizione pubbliche su questo. Nell’introduzione del 1976 a The Left Hand of Darkness (del 1969; La mano sinistra delle tenebre, Nord, 1984), la scrittrice si pone una domanda che ci riguarda anche qui e ora: “C’è da meravigliarsi che nessuna società veramente rispettabile abbia mai avuto fiducia nei suoi artisti?”. No, non c’è da meravigliarsi, né allora né ora che un improbabile presidente degli Usa manda tweet sull’inutilità della letteratura. È tutto ovvio, perché appunto, scrive altrove Le Guin, “Abbiamo la tendenza, come popolo, a considerare ogni opera dell’immaginazione sospetta o disprezzabile” (1974).
Resistenza e cambiamento
Disprezzabile appare, quindi, la fantascienza, in modo implicito o esplicito, soprattutto se a scriverla è una donna. Etichetta rischiosa, che espone chi la sceglie a rifiuti e difficoltà, essa è, tra le altre cose, la ragione del dibattito recente tra Le Guin e Margaret Atwood su una questione definitoria, sulla quale le due grandi hanno posizioni diverse, di adesione inflessibile la prima e di precisi distinguo la seconda. Atwood insiste sulla necessità di qualificare le sue distopie non come science fiction, ma come speculative fiction. Le Guin replica che speculative fiction è un’etichetta arbitrariamente restrittiva e formulata a scopo protettivo, per sfuggire alla “cricca”, come la definiva Kurt Vonnegut, degli scrittori di genere. Il punto è, secondo Le Guin, che non bisogna aver paura delle definizioni, né concepirle in modo rigido: science fiction e fantasy, pur affascinanti in se stesse, sono soprattutto costrutti letterari essenziali e strumenti attraverso i quali il mondo può essere descritto, ma solo quando se ne onorano le formule. E le formule non sono prigioni; al contrario, esse vanno conosciute e modellate, trasformate, dall’interno di un genere nato con una forte caratterizzazione maschile, in modo da sostituire l’“ideale del Babbuino” – la Baboon patriarchy di cui parla anche Joanna Russ – con “un po’ di idealismo umano” e con “una seria riflessione su concetti così profondamente radicali e futuristici come la libertà, l’eguaglianza e la fraternità”. Dopo di che, in conclusione del saggio del 1974, Le Guin rammenta che “circa il 53 per cento della Fratellanza dell’Uomo è la Sorellanza della Donna”. Il fondamento dello speculative feminism di cui bene dice Lidia Curti sta esattamente in questa considerazione, e nel modo in cui essa viene trasformata in letteratura, a tutti gli effetti e senza etichette.
Non è impresa facile, e neanche un percorso elementare, ma la science fiction e il fantasy sono strumenti educativi e meravigliose palestre, da questo punto di vista. E ci vogliono il talento e il mestiere. Darko Suvin, forse il primo vero critico della fantascienza, definisce questo genere come “una narrazione in cui l’elemento o aspetto fantascientifico, il novum, è egemonico, vale a dire così centrale e significativo da determinare l’intera logica della narratività”. Per le Guin, questo principio si articola in due nodi concettuali: la resistenza e il cambiamento. In apparente contraddizione, essi sono il motore della storia, e nel loro dinamico intersecarsi non forniscono risposte, ma solo temporanei punti di equilibrio e costanti momenti di attrito, soluzioni instabili e comunque non permanenti, anche quando nascono da una volontà autenticamente buona. Sono i mondi connessi per opposizione di Urras e Anarres (1974; I reietti dell’altro pianeta, Nord, 1977): una plutocrazia insoddisfatta e una luna anarchica che sta evolvendo verso il controllo del pensiero. Nessuna delle due è totalmente buona o totalmente cattiva. Ed entrambe sono necessarie, come il bianco e il nero del Tao, o, per dirla con le parole di Angela Carter (un altro talento parente), come l’arroganza e il desiderio, la cui combinazione dà forma a quello che siamo, o a quello che dovremmo essere. Il mondo si costruisce per frizioni e aggregazioni. E la resistenza e il cambiamento, dice Le Guin sempre nel discorso del 2014, spesso cominciano nell’arte. E molto spesso nell’arte delle parole.
A cosa serve la fantascienza
La complessità morale del genere fantascienza discende da questo. Quella migliore è un esperimento di pensiero, non un esercizio di previsione del futuro: un costrutto metaforico, non il reportage para-mimetico su un futuro probabile. “Tutta la finzione – ammonisce Le Guin, già nel 1976 – è metafora. La fantascienza è metafora (…) il futuro, nella finzione, è metafora”. E bisogna capirsi su cosa si intende per metafora, perché nel senso comune, il significato dell’operazione letteraria di stampo fantascientifico, ancora all’epoca dell’elezione di Trump, non è evidentemente chiara, se Le Guin si trova a rispondere all’improvvida affermazione di un politico secondo cui gli scrittori di fantascienza raccontano fatti alternativi. L’immaginazione non racconta fatti alternativi, ovvero quel genere di bugie che servono a rassicurare, raggirare, manipolare. L’immaginazione ha altre finalità, e non è pericolosa in senso cognitivo; al contrario serve a capire meglio.
Perciò, a che cosa serve scrivere fantastico o fantascienza, oggi? Non a far soldi, anche perché “i libri non sono merci”. Non a diventare famosi, perché la fantascienza non è considerata letteratura. Non a vincere il Nobel, che comunque nessuno scrittore di fantascienza ha mai vinto. Quindi? Beh, sussurra Le Guin, serve a misurarsi col dubbio, a prendere atto della resilienza dell’ombra e della necessità di riassorbirla come una componente necessaria. A conservare la consapevolezza di essere fatti di pezzi, alcuni dei quali sbagliati, ma nostri comunque. A diventare grandi senza dimenticarsi di essere stati bambini. Magari a non rifiutare tutti gli stranieri, tutti i comunisti, tutti i capitalisti come malvagi. E a non dire che comunque è sempre colpa degli altri: ogni tanto qualche responsabilità bisogna pur prendersela, perché fa parte del mestiere di essere liberi. E infine: ad accettare l’oscurità e la creazione incompleta, come nel paradossale rito di ringraziamento di Estraven in The Left Hand of Darkness, e a sapere che la vita è edificata su ciò che è ignoto, imprevisto, indimostrato, incongruo e pertanto capace di innescare un’azione. È un’impresa complicata, questa, della quale Le Guin si è fatta paradigma. Per guadagnarci cosa? Un premio, che si chiama libertà.
nicoletta.vallorani@unimi.it
N Vallorani è scrittrice e traduttrice