Dieci mani possono bastare: quando la traduzione è un lavoro di gruppo

Schiamazzi, preghiere e insulti da un cimitero del Connemara

di Thais Siciliano

dal numero di febbraio 2018

Tradurre a partire da una traduzione: quasi un sacrilegio. Qualunque traduttore farebbe un salto sulla sedia di fronte a una prospettiva simile, eppure è quanto è avvenuto nel caso di Cré na Cille, peculiare romanzo dell’irlandese Máirtin Ó Cadhain. Uscito nel 1949, malgrado la sua importanza nel panorama letterario irlandese è stato tradotto e pubblicato in inglese solo nel 2015, da Alan Titley, con il titolo The Dirty Dust. Eppure, soltanto un anno dopo, la stessa casa editrice (Yale University Press) ha deciso di pubblicare una seconda traduzione in inglese, stavolta a cura di Liam Mac Con Iomaire e Tim Robinson, intitolata Graveyard Clay. Una scelta quantomeno bizzarra, che secondo quanto afferma l’editore stesso sul suo sito: “(is) meant to spark debate and comparison with Alan Titley’s Dirty Dust”.

Graveyard Clay e Dirty Dust

Deciso a portare il capolavoro di Ó Cadhain in Italia, l’editore Lindau si è dunque trovato di fronte a un dilemma: quale versione utilizzare come base per la traduzione nella nostra lingua? L’originale irlandese sarebbe certo stato la scelta più ovvia, ma si dà il caso che l’autore (1906-1970) abbia utilizzato un dialetto molto particolare e circoscritto, difficilmente comprensibile addirittura dai parlanti irlandesi contemporanei; di conseguenza l’impresa di trovare un traduttore italiano che riuscisse a coglierne al meglio ogni sfumatura appariva quantomeno ardua. La variante dialettale del Connemara scelta da Ó Cadhain per far parlare i suoi personaggi era già quasi in disuso negli anni cinquanta, pertanto solo pochi studiosi di letteratura irlandese sono in grado di apprezzarla completamente.

Una volta stabilito di partire da una delle due traduzioni in inglese, il passo successivo è stato consultare alcuni docenti dello University College di Cork e del Trinity College di Dublino, i quali sono stati concordi nell’affermare che “Graveyard Clay is a lot closer to the original text, in a word for word sense” (Pádraig De Paor, Trinity College), mentre “The Dirty Dust reads better, some readers think, and is more creative, as the original book was. So it would be good to keep an eye on both” (Micheál Ó Conghaile, Yale University Press). Resta ovviamente aperta una questione fondamentale, il vero dubbio amletico di ogni traduttore: come dovrebbe essere una buona traduzione, “closer to the original text” o “more creative”?
Graveyard Clay ci è subito apparsa una traduzione piuttosto lineare, senza troppi eccessi, mentre in The Dirty Dust si è evidentemente cercato di ricreare il linguaggio originale e ricco di neologismi di Ó Cadhain, raggiungendo talvolta un effetto un po’ troppo addomesticante, quasi un’opera nuova, a partire dai nomi propri dei personaggi, trasformati nel loro corrispettivo inglese (Pádraig diventa Patrick, Cáit diventa Kitty e così via). Alan Titley si è dunque preso qualche libertà in più, talvolta allontanandosi dal contesto e dall’epoca del racconto, inserendo espressioni molto moderne o volgari (ad esempio una profusione di fuck laddove l’originale chiamava in causa il diavolo o l’inferno), e il suo lavoro risulta per questo più simile a un adattamento che a una traduzione.

La terza traduzione

Lette alcune recensioni delle due diverse traduzioni, e dopo averle confrontate tra loro, si è quindi stabilito di basarsi principalmente su Graveyard Clay, la versione di Liam Mac Con Iomaire e Tim Robinson, e di tenere d’occhio The Dirty Dust solo per dirimere eventuali questioni controverse. Sembrava filare tutto liscio, quando (a lavoro quasi ultimato) ci è stata segnalata una terza traduzione, curata da Joan Trodden Keefe nel 1984 per scopi prettamente accademici e mai pubblicata, ma utilizzata dai traduttori di Graveyard Clay come parte della ricca bibliografia consultata per stilare la loro versione di Cré na Cille. Un veloce scambio di e-mail con l’Irlanda ha chiarito che questa, come le altre traduzioni, presentava diverse imperfezioni e persino qualche errore (c’è da dire che anche nel testo irlandese, a quanto ci hanno riferito, sono presenti alcune contraddizioni), quindi è stata utilizzata solo come ulteriore riferimento in fase di revisione. Per non trascurare alcuna possibile fonte di informazione lessicale, ci siamo procurati un dizionario irlandese-inglese e abbiamo consultato un parlante nativo che ci ha aiutati a chiarire i dubbi più persistenti.
Si tratta di un testo complicato in sé, al di là delle questioni specificamente traduttive: la narrazione è infatti composta da soli dialoghi tra gli arzilli defunti di un camposanto del Connemara, con svariate espressioni e idiosincrasie che si ripetono ciclicamente; di conseguenza, il carattere dei personaggi doveva emergere dalle loro parole rendendoli immediatamente riconoscibili a ogni battuta, poiché il nome di chi parla non viene quasi mai menzionato esplicitamente.

Ma le particolarità di questa traduzione, uscita ad agosto 2017 con il titolo Parole nella polvere (per la torinese Lindau, prefazione di Alan Tittley, postfazione di Vincenzo Perna, pp. 400, € 26), non finiscono qui: proprio per via della sua particolare natura dialogica, il lavoro è infatti stato svolto non a due né a quattro, ma a ben otto mani (più le due fondamentali mani dell’editor, che portano il conto finale a dieci). Insieme a chi scrive, hanno sudato e imprecato su questo testo Luisa Anzolin, Laura Macedonio e Vincenzo Perna, mentre della revisione si è occupata Paola Quarantelli. Dieci mani possono forse sembrare troppe per un solo libro, ma non pensate che ognuno abbia lavorato in totale isolamento lasciando all’editor il compito finale di uniformare il tutto: questa traduzione è il frutto di un lavoro svolto a stretto contatto, con continue revisioni incrociate, riletture, incontri, discussioni infinite e file condivisi su Google Drive. Trattandosi di un’operazione tanto complessa, può forse essere interessante chiarirne le varie fasi.

Le fasi della traduzione

Come dovrebbe sempre accadere quando si affronta un testo da tradurre, abbiamo svolto le opportune ricerche sull’autore e sulle condizioni di vita nella sua epoca, cui il testo fa spesso riferimento: le vicende politiche e sociali dell’Irlanda tra i primi anni venti e gli anni quaranta si intrecciano alle storie personali dei protagonisti, che le commentano e le criticano senza alcuna remora. Una volta compreso il contesto, è giunto il momento di occuparsi della traduzione in sé.

Per cercare di tarare il registro e per saggiare le prime difficoltà del testo, il lavoro sul primo capitolo è stato particolarmente intenso: ognuno dei quattro traduttori ha lavorato sulle prime pagine, poi si è discusso a lungo, fino a raggiungere un risultato condiviso. Un’impresa impossibile da replicare per le oltre 350 pagine del libro, che è quindi stato affrontato in un altro modo: in una prima fase, ogni traduttore ha ricevuto due capitoli consecutivi su cui lavorare in solitudine, dopodiché li ha inviati a un compagno per la revisione. Abbiamo ritenuto opportuno che ognuno correggesse i capitoli successivi ai propri, per ricercare una maggiore continuità. Ciascun traduttore ha poi lavorato in stretta simbiosi con il compagno per appianare le divergenze d’opinione e arrivare a un risultato che soddisfacesse entrambi, senza mai perdere il contatto con l’altra coppia.

A questo punto si è resa necessaria una discussione più organica e completa per arrivare a un risultato coerente, armonioso e omogeneo; un fine settimana in montagna, passato a dirimere le molte problematiche del testo, ci ha permesso di giungere a faticosi compromessi e di prendere decisioni su questioni come i soprannomi dei vari personaggi, gli evocativi nomi dei luoghi, gli insulti più coloriti e così via.

La sfida era duplice: da un lato temevamo di appiattire il linguaggio evocativo, rude ma schietto, dei protagonisti, eliminandone le asperità per avvicinarlo ai lettori italiani poco avvezzi al mondo del folklore irlandese, dall’altro dovevamo stare attenti a non far parlare questa comunità rurale come un gruppo di bifolchi semianalfabeti, usando un linguaggio troppo colloquiale. Nella parlata di questi personaggi non sono presenti errori, ma soltanto espressioni colorite, strettamente legate al mondo contadino, talvolta addirittura inventate dall’autore. Un altro problema erano i cosiddetti “nomi parlanti”, ossia tutti quei riferimenti a luoghi e a soprannomi che rischiavano di trasformare il contesto del libro in un fantasy per ragazzi (Baia di Mezzo, Pian dei Massi, Éamon del Colle, Guado di Canne, per citarne alcuni), in aggiunta al fatto che le tre traduzioni sceglievano spesso interpretazioni diverse dello stesso nome, amplificando i nostri dubbi.

I benefici

In seguito a ulteriori revisioni e riletture incrociate, abbiamo ottenuto un testo che ci è parso più che soddisfacente. Non è certo semplice far lavorare in sincronia quattro teste diverse, ma per fortuna questo gruppo di traduttori aveva già affrontato insieme alcuni libri e soprattutto ciascuno dei membri è stato in grado di mettersi in discussione e, talvolta, di cedere (per poi farsi valere in altri punti, ovviamente). Il lavoro di gruppo non è mai privo di difficoltà, ma ciascuno di noi ha ammesso che senza il sostegno e il confronto con gli altri l’impresa sarebbe stata molto più complessa, a causa di tutte le variabili di cui tenere conto e della vivacità linguistica del testo, che a nostro parere ha beneficiato enormemente delle infinite discussioni e dell’idioletto di ciascuno di noi.

In questo caso, lo scopo di una traduzione collettiva non è certo stato il risparmio di tempo, come talvolta accade per alcuni libri, ma la scelta precisa di ricreare un dialogo, un accavallarsi di voci, una discussione continua, talvolta anche concitata, che ci ha portati a ottenere quello che a noi pare un testo vivo, frizzante pur nella sua ripetitività; un intreccio di lamentele, schiamazzi, preghiere, insulti e recriminazioni cui ciascuno di noi ha dato un contributo fondamentale. In fondo, cosa c’è di meglio di un’accesa discussione fra traduttori per replicare i litigi di un gruppo di vicini che si ritrova a convivere a stretto contatto anche dopo la morte?

thais.sicliano@libero.it

T Siciliano è traduttrice