Camminar guardando, 44
di Stefano de Bosio
dal numero di gennaio 2018
Inaugurato nel settembre 2016 sul National Mall di Washington D.C., il Museo nazionale della storia e della cultura afroamericana – il Nmaahc – occupa un’area poco distante dall’imponente obelisco del Washington Memorial. La discontinuità con gli edifici circostanti è flagrante: al lessico di impronta neoclassica che caratterizza la più parte dell’architettura della capitale statunitense, il museo oppone l’elusività di una struttura dai colori terrosi composta da tre enormi tronchi di piramide sovrapposti. Il progetto dell’architetto britannico-ghanese David Adjaye si ispira alle forme del copricapo regale yoruba, con griglie traforate che fasciano esternamente l’edificio, omaggio alla lavorazione del ferro battuto, specialità degli artigiani neri di New Orleans.
All’interno del Nmaahc la luce filtra attraverso queste aperture, animando, simile a un caleidoscopio, le pareti della grande hall, uno spazio altrimenti architettonicamente sobrio. Al visitatore si offrono due possibilità, che corrispondono alla principale articolazione delle collezioni: accedere per mezzo di un enorme ascensore alle gallerie storiche ipogee o salire ai tre piani dedicati alla società e cultura afroamericana.
Nelle History Galleries, la prima parte del percorso di visita è dedicata alla tratta degli schiavi e si contraddistingue per ambienti progettati volutamente bassi e claustrofobici, e che trovano nell’esposizione del relitto della nave negriera São José Paquete, rinvenuta nelle acque del Sud Africa nel 2015, un primo punto focale. Di indubbio effetto è l’accesso, subito dopo la sezione dedicata alla guerra di indipendenza, alla grande hall che si eleva per tutta l’ampiezza dei quattro livelli ipogei su cui si organizza il percorso storico. Intitolata Il paradosso della libertà questa sezione si apre con una statua di Thomas Jefferson e con l’iscrizione, sul muro alle sue spalle: “Tutti gli uomini sono stati creati uguali”, tratta dalla Dichiarazione di indipendenza. Ma su ogni mattone di questo muro è riportato il nome di uno degli oltre seicento schiavi di proprietà di Jefferson. L’indipendenza delle colonie americane vede infatti il permanere di profonde fratture interne alla società americana riguardanti la condizione e il ruolo della popolazione afro-americana all’interno della società, tensioni che esploderanno durante la guerra civile del 1861-65.
Seguono le sale dedicate alla segregazione razziale e ai movimenti novecenteschi per i diritti civili, tra le più riuscite del percorso. L’esposizione di reperti carichi di significati al contempo storici ed emozionali, da una fontana “per soli neri” proveniente da Charlotte al vestito che Rosa Parks stava cucendo il primo dicembre del 1955, (giorno in cui si rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus a Montgomery, in Alabama) si trova associata a percorsi sonori in cui le voci e le storie di personaggi celebri danno vita a un percorso di parole e pensieri che risuonano nello spazio. Nell’ultimo segmento, intitolato Un’America in corso di cambiamento: 1968 e oltre, la narrazione si fa più accorata, intrecciando dimensioni politiche, attiviste e culturali, dal Black Arts Movement alla nascita dell’hip hop, alle Black Panthers. Il percorso si chiude con un video e alcuni memorabilia provenienti dalla cerimonia del 2008 di insediamento di Barack Obama, primo presidente di origini afroamericane, seguito da una gigantografia tratta da un corteo del movimento di protesta Black Lives Matter nato nel 2014 per denunciare la violenza di cui sono vittime i neri, in particolare da parte delle forze dell’ordine. Questo accostamento fra i traguardi raggiunti e le criticità ancora irrisolte restituisce con onestà le contraddizioni che attraversano la società americana contemporanea.
Giunti nuovamente nella hall, un breve corridoio conduce in un ambiente denominato l’oculo, in cui da una grande apertura circolare nel soffitto discende l’acqua che riempie un bacino centrale, mentre la luce che filtra dall’esterno fa brillare le citazioni di Martin Luther King e altri riportate sulle pareti. L’intenzione dei progettisti era offrire al visitatore uno spazio di raccoglimento e riflessione dopo la visita alle gallerie storiche, in uno slittamento dal museo al memoriale che è ormai caratteristica ricorrente in molti musei storici contemporanei.
Il secondo piano, intitolato Community Galleries, si apre con un’esplorazione di alcune forme di aggregazione sociale cruciali per coltivare nel tempo un’identità afroamericana: scuole, società assistenziali, istituzioni religiose, iniziative editoriali. A queste si associano due gallerie dedicate rispettivamente al ruolo degli afroamericani nell’esercito statunitense (intitolata Double Victory) e nello sport – uno tra i primi spazi sociali ad accettare gli afroamericani –, quest’ultima con focus dedicati a figure come Muhammad Alì, in cui i successi sportivi si saldano all’attivismo politico per i diritti civili. A completare questo piano espositivo si trovano le gallerie intitolate A Power of Place che, attraverso la scelta di dieci luoghi americani, dai campi di cotone della Carolina del sud alla Chicago operaia, indaga l’articolarsi delle biografie individuali tra geografia, memoria e immaginazione.
Il terzo piano è infine dedicato alle caleidoscopiche manifestazioni della cultura che emerge dal trauma del commercio transatlantico degli schiavi, spaziando dalla musica alla letteratura, dal teatro al cinema, dalla danza alle arti visive. “God created black people and black people created style”: questo aforisma del drammaturgo George C. Wolfe campeggia sul muro dell’ambiente centrale intitolato Espressioni culturali, dove un grande schermo circolare proietta immagini e musiche, dagli spirituals a Michael Jackson. Da questo spazio si dipartono le tre gallerie dedicate al contributo degli afroamericani nel teatro e nel cinema, nelle arti visive e nella musica. I materiali convocati nelle sale espositive, uniti alla chiarezza e puntualità dei pannelli di commento, offrono l’occasione per innumerevoli approfondimenti tematici, apprezzabili solo attraverso reiterate visite al museo. Le dieci sale del percorso Arte sono organizzate tematicamente, e dedicate ad aspetti quali la rappresentazione del sè, la nozione di bello e l’interazione con l’arte africana. Tra i punti ricorrenti, il rifiuto di molti artisti a essere classificati come esponenti di una black art, ulteriore declinazione culturale di una forma di ghettizzazione.
La sezione Musica, dedicata a uno dei più ricchi veicoli di espressione identitaria, presenta in vetrine tematiche oltre trenta diverse sfaccettature dell’universo sonoro afroamericano. Nel percorso espositivo, estremamente curato è stato l’aspetto dell’emissione del suono: la collocazione di altoparlanti in corrispondenza del pavimento e del soffitto consente di passare agevolmente attraverso i vari tappeti sonori senza incorrere in quell’effetto cacofonico che troppo spesso si incontra in mostre che presentano nel medesimo spazio numerosi materiali audiovisivi.
Al Nmaahc – questo l’impronunciabile acronimo – la suddivisione, pur certo artificiosa, tra storia e cultura, con la cultura letteralmente “sovrastruttura” del percorso storico ipogeo, si rivela nell’insieme un’intuizione vincente del progetto museografico. La sfida era titanica: dare conto delle tumultuose vicende storiche e al contempo dell’inesausta creatività propria della storia delle comunità afroamericane. L’insistenza sulla dimensione esperienziale, in cui al centro sono il singolo e le sue scelte, sia esso il visitatore o una persona vissuta nella storia, è certamente uno dei principi ispiratori del progetto. Oltre all’insistenza sulle singole biografie, in più punti del percorso espositivo sono posizionate alcune stazioni multimediali in cui il pubblico può registrare dei video con riflessioni sulla sua esperienza di visita, oppure calarsi nei panni, ad esempio, di uno schiavo che vive in una piantagione di cotone o di un attivista newyorkese degli anni sessanta, rispondendo a domande come: “Porteresti tuo figlio in una marcia di protesta?”.
L’incredibile successo di pubblico ottenuto da questo nuovo museo, la cui apertura è emblematicamente avvenuta negli ultimi mesi della presidenza Obama, ha inoltre contribuito a rinfocolare la causa di un altro progetto di museo nazionale: il Museo della storia delle donne. A inaugurarlo non sarà però Hillary Clinton.
stefano.debosio@fu-berlin.de
S de Bosio insegna storia dell’arte moderna alla Freie Universität di Berlino