Avventurarsi sul filo
recensione di Maria Vittoria Vittori
dal numero di dicembre 2017
Simona Vinci
PARLA, MIA PAURA
pp. 122, € 13
Einaudi, Torino 2017
Che la scrittura di questo libro fosse diventata per Simona Vinci un appuntamento ineludibile, s’era già intuito attraverso il libro che lo precedeva, La prima verità, Einaudi, 2016, straordinario romanzo che ha vinto il Premio Campiello in quell’anno. Nello spazio concentrazionario dell’istituto psichiatrico di Leros, sperduta isoletta dell’Egeo, si intrecciavano i percorsi di tre profughi della storia: l’intellettuale poeta Stefanos, mandato al confino dalla dittatura dei colonnelli, la giovane Teresa che ha smarrito la ragione per le troppe violenze subite e il piccolo Nikolaos, diventato muto per estrema protesta contro il mondo. Non era soltanto una rielaborazione romanzata di vicende realmente accadute ma un’autentica avventura interiore, perché il torto patito da queste creature e le loro insanabili ferite venivano chiamate a confrontarsi con le ferite e le lacerazioni dell’autrice che già nel prologo, e poi ancor di più nel capitolo conclusivo, si mostrava senza alcun riparo, raccontando di un’infanzia problematica e di quelle tenaci ombre nere che a un certo punto della sua vita le sono piombate addosso, portandola a un passo dal suicidio.
Cosicché non stupisce che in questo libro al di fuori di ogni genere definito le affronti direttamente, queste sue ombre, e le chiami per nome: la paura “irrazionale e pervasiva”, la tristezza costante “con punte improvvise d’angoscia”, la sindrome depressiva. E con una voce che cerca, e spesso ottiene, di placarsi nel ritmo della scrittura – un controllo acquisito a caro prezzo – ne racconta le modalità di comparsa, le fasi acute, il desiderio e la volontà di morire, gli intervalli di remissione, sempre più lunghi: e così facendo è l’intera sua vita che viene fuori, a partire da un’infanzia che è stata fisicamente felice e risolta – la bambina spavalda, il “Fenomenino” – quanto popolata da oscuri disagi interiori, le cui tracce vedeva anche nella figura materna. Ma se i bambini non si salvano e non salvano nessuno – dura verità che più volte l’autrice ribadisce, in questo libro ma anche in certi suoi racconti-fiabe al limite della crudeltà e nel romanzo precedente – e si impara a cercare di mettersi in salvo soltanto crescendo, l’altra grande verità è che non ci si salva mai da soli.
E allora, la pluralità di percorsi in cui si snoda il racconto di una vita va in una duplice direzione: la prima è l’individuazione, il più possibile nitida, del nucleo di quelle relazioni che formano il proprio tessuto esistenziale come il difficile rapporto con la madre, la relazione con quel primo ragazzo importante che, concludendo prematuramente la sua esistenza in un luminoso mattino di settembre, non ha mai smesso di essere importante, il rapporto complesso e in continuo divenire con le due persone che le hanno fatto da sponda nel periodo di estrema angoscia, quello in cui non si riconosceva più: il chirurgo estetico e la psicoanalista. E se è vero che, ancora oggi, il più grande totem e tabù resta quello della maternità, con quanta cura Simona Vinci sceglie le parole per farci affacciare su quel groviglio di ansia e tenerezza, sensi di inadeguatezza e di colpa, cieco furioso attaccamento e altrettanto furioso desiderio di indipendenza, che diventare madri inesorabilmente comporta.
La seconda direzione, che spesso si intreccia alla prima, va verso le storie di altre persone inventate oppure realmente esistite, lontane nel tempo e nello spazio, e ne fa materia di riflessione e di nutrimento creando nuove isole di significato. Così, ad esempio, possono riaffiorare alla mente e rivelarsi importanti i personaggi di un film di Bergman; la storia di M. raccontatale dal chirurgo, dimostra che la chirurgia plastica estetica lavora non soltanto sul corpo ma “su strati della coscienza individuale intangibili eppure determinanti”; la voce di Chris Cornell, compagno di viaggio di un’intera generazione, continua a risuonare nell’interiorità; i giardini e i canali di Venezia contengono sì una promessa di salvezza ma anche il nucleo di storie tragiche, “storie che mi inseguono”, rivela l’autrice stessa, come quella di Constance Fenimore Woolson, infelicemente innamorata di Henry James e suicidatasi per amore e di Pateh Sabally, il ragazzo venuto dal Gambia che in una fredda domenica di gennaio del 2017 si getta in un canale e vi affoga. Ma l’ambivalente Venezia diventa anche palcoscenico per quell’inaspettato intervento di Vikram Seth al Festival Incroci di Civiltà, un’esibizione brillante e scatenata che lo rivela nelle sue paure più profonde. È dunque un filo sottile ma tenace quello che lega l’intera trama delle relazioni, fuori e dentro il libro, e deve la sua eccezionale resistenza al suo doppio filo, poiché è costituito sia dalla convinzione che “ogni vicenda umana è, in qualche modo, di chiunque voglia condividerla”, sia dall’estrema fiducia nelle possibilità della parola che mentre scava, mette a nudo e fa male, al tempo stesso chiarisce, sorregge e impedisce di precipitare. Proprio come il filo su cui s’avventura il funambolo.
mv.vittori@tiscali.it
MV Vittori è insegnante e saggista