Martiri e vigliacchi della resistenza kenyota
recensione di Maria Paola Guarducci
dal numero di novembre 2017
Ngũgĩ wa Thiong’o
UN CHICCO DI GRANO
ed. orig. 1967, trad. dall’inglese di Marco Grampa
pp. 311, € 18
Calabuig, Milano 2017
C’erano voluti undici anni perché l’editoria italiana si accorgesse di A Grain of Wheat, bellissimo romanzo pubblicato nel 1967 dal keniota Ngũgĩ wa Thiong’o, “padre fondatore” della letteratura africana in inglese con il Nobel nigeriano Wole Soyinka e il compianto Chinua Achebe. Nato a Kamiriithu nel 1938 e migrato prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, Ngũgĩ risiede ancora in America, dove insegna all’Università della California, ma mantiene stretti legami con la madrepatria, paese amato e odiato che in passato gli ha riservato prigione, esilio, censura. Alla prima pubblicazione di Un chicco di grano nella traduzione di Marco Grampa (1978), la stessa Jaca Book (pioniera in materia di Africa) ha fatto seguire due edizioni a circa venti anni l’una dall’altra: nel 1997 la prima e adesso con Calabuig la seconda. Se è lodevole l’iniziativa di riproporre al pubblico quest’opera, sarebbe stato auspicabile rivederne la traduzione e integrarla con una nuova introduzione, o almeno aggiornare quella ormai datata dello stesso Grampa, che nel 1978 citava testi ormai introvabili ricordando che Ngũgĩ era noto in Occidente come James Ngũgĩ. Quest’ultima affermazione, in particolare, risulta particolarmente obsoleta dal momento che Ngũgĩ stesso, negli anni settanta, aveva provocatoriamente proposto l’abolizione del dipartimento di inglese all’Università di Nairobi per poi, con ancora più veemenza, abbandonare pubblicamente l’inglese come veicolo della sua scrittura creativa e recuperare il suo nome africano. Il romanzo Petals of Blood (1977; Jaca Book 1979, ormai fuori stampa) celebrava il suo commiato dall’idioma coloniale e la determinazione, che persiste da allora, di scrivere teatro e narrativa solo in gikuyu, la lingua del popolo, da sempre suo privilegiato destinatario. Eppure è stata la stessa Jaca Book che ci ha regalato solo due anni fa l’importante raccolta di saggi Decolonizzare la mente (1986) nella quale Ngũgĩ sviscera, con la chiarezza che marca la sua produzione teorica, proprio la cruciale riflessione sulle lingue e sulle loro implicazioni culturali, politiche, identitarie.
Un romanzo storico
Un chicco di grano, uscito a tre anni dall’indipendenza del Kenya, è un romanzo storico. La storia del paese, che parte dall’arrivo dei primi missionari e rammenta con amara ironia la sostituzione (nei rapporti tra europei e africani) della Bibbia con le armi, si intreccia presto con quella degli anni cinquanta, quando lo stato di emergenza dichiarato dal governatore inglese cercava di combattere la resistenza dei Mau Mau di Jomo Kenyatta. In una trama fitta e articolata, la celebrazione dell’Uhuru (libertà) costituisce il presente del romanzo. Se le condizioni estreme della lotta favoriscono la consacrazione di eroi e martiri e la stigmatizzazione dei vigliacchi, l’indipendenza genera invece un entusiasmo che non tarda a rivelare le prime crepe, come in soli tre anni era di fatto accaduto, nella realtà, al governo di Kenyatta, leader della lotta agli oppressori bianchi, acclamato presidente della nuova repubblica, ma presto dittatore dispotico e nepotista.
In una storia che con il passare del tempo ha assunto progressiva limpidezza, ma che negli anni sessanta doveva essere complicato raccontare, i personaggi del testo (Mugo, Gikonyo, Mumbi, Kihika, John e Margery Thompson, Karanja) e l’intrecciarsi inesorabile delle loro vicende con la macrostoria del paese appaiono ancora rilevanti e rivelatori. Segnati da una fragilità umana con cui non si può non empatizzare, questi personaggi, nei loro piccoli e grandi tradimenti, fanno i conti con la non corrispondenza tra l’infelicità soggettiva e l’imperativo collettivo che li vorrebbe liberi e contenti perché affrancati dal giogo coloniale. Nelle loro contraddizioni e nel loro dolore sono più credibili del “cristologico” Kihika, l’eroe della resistenza (e del romanzo) che ha lottato senza posa per la libertà del suo popolo e della sua terra, che non si è piegato agli inglesi nemmeno sotto tortura, che una volta ucciso si è trasformato in un potente mito pubblico. Kihika, infatti, non sapeva amare e in questa incapacità rivela il vizio di forma degli idealisti (Kenyatta compreso); una sorta di integralismo di matrice più narcisistica che filantropica, tutto maschile, che spesso porta i leader al fallimento umano e quindi anche politico, perché umanità e politica dovrebbero compenetrarsi per Ngũgĩ e per la sua versione di socialismo africano che ancora stenta a trovare corrispondenze nella storia del continente. Non stupisce allora che sia una donna, Mumbi, il personaggio che pur nelle sue debolezze conserva capacità di determinazione e di controllo, su se stessa e dunque sul mondo, in una galleria di uomini indecisi, orgogliosi, permalosi, pavidi, inflessibili, distaccati, smarriti; non in contatto con la loro interiorità ed emotivamente lontani da quel mondo che vorrebbero via via riscrivere o anche solo abitare.
mariapaola.guarducci@uniroma3.it
M P Guarducci insegna letteratura inglese all’Università di Roma Tre