La vita dalle fessure
recensione di Daniele Santero
dal numero di novembre 2017
Dario Franceschini
DISADORNA E ALTRE STORIE
pp. 96, € 15
La Nave di Teseo, Milano 2017
Sarebbe forse più utile, poiché non siamo in Francia, che almeno il nome dell’autore slittasse dolcemente dalla testa al piè di pagina, in modo da disinnescare a priori la fatale domanda: “Dario Franceschini… Quel Dario Franceschini?”. La quale porterà più di un lettore fazioso o arrabbiato, comunque non aggiornato, a non iniziare neppure la recensione oltre al libro, colmo di sacrosanto sdegno, e a rendere vana questa fatica. Poiché non siamo in Francia, sarebbe anche ingenuo affermare che la notorietà politica non riesca effettivamente a condizionare in qualche modo il lettore, che non è un Simeone Stilita sulla sua alta colonna.
Di fatto, il ruolo di rilievo nelle istituzioni ha condizionato lo stesso scrittore. Per impegni più seri ed augusti del giocoso esercizio della letteratura, Franceschini non potrebbe giustamente scrivere quanto né come un Gadda, un Landolfi o un Savinio: ché l’opzione contraria sarebbe l’indizio di un’errata scelta di carriera, questa sì preoccupante.
Credo tuttavia che il lettore sdegnato perderebbe più di un’occasione, a partire da un’intrigante intelligenza con il nemico, nell’ignorare par principe i raccontini senza titolo di Disadorna. Innanzitutto questa: in tempi di iperrealismo e di non-fiction che vuole inventare il vero, Disadorna vive di una dissonanza che dipende solo in minor parte dalla familiarità con un realismo magico di cui non raggiunge lo spaesamento e gli eccessi. Agisce senza dubbio in più racconti lo spirito del luogo, per lo più Ferrara e la sua provincia, che Franceschini rivendica in ogni presentazione o intervista: a suo tempo lo stesso Savinio diceva che “Frara” è “la città dai mille misteri naturali”. Agisce, soprattutto, un preciso modus videndi, adottato da più d’uno dei suoi personaggi.
Visione obliqua dell’orizzonte
Si rivela quando giovani e vecchi al campetto di Santa Maria in Vado conversano su sedie che puntualmente sprofondano “nella terra morbida tra i ciottoli”. Sembrano quasi “rovesciarsi”, ma nessuno si sogna di alzarsi a “rimettere la sedia in una posizione normale”, giudicando “perfetta” quella “visione obliqua dell’orizzonte”. Allo stesso modo Eugenio osserva “la vita dalle fessure”: “Più delimitavano la striscia verticale di mondo che era possibile vedere, più lui riusciva a immaginare la bellezza di tutto il resto”. E Antonio accosta “la sua piccola scrivania” al davanzale, per poter guardare la piazza del mondo attraverso la sua finestra.
Nelle sue Note azzurre Dossi rintraccia nel motto “half is better than the whole” una “regola capitale nell’arte”. Ma quando Franceschini assume e riversa sui suoi personaggi la loro stessa “visione obliqua” e scorciata delle cose trattiene ben meno della metà di ciò che inquadra. E ciò che inquadra è sempre una vita.
“Vita”, appunto, è forse la parola più ricorrente della raccolta, con 29 occorrenze contate, declinata come esistenza concreta e individuale, se si vuole biografia. Di fatto, più che svaghi da post-strutturalista o punti ciechi à la Cercas, i brani di Disadorna, dedicati ciascuno ad un solo vero protagonista, sfilano come minime biografie fantastiche che rovesciano le gerarchie interne del genere.
Il Dottor Samuel Johnson sosteneva che si possa conoscere meglio la vera natura di un uomo vedendolo alle prese, nel “racconto solenne” della sua esistenza, con un’inezia, magari “una corta conversazione con uno dei suoi vecchi servitori”. Prezzolini si rammaricava di non sapere “da qual piede cominciasse a scalzarsi il Machiavelli”, valutando quel dettaglio alla pari di “un’affermazione filosofica”, ritaglio “rivelatore dello spirito”.
Del lento, sterminato precipitare dei giorni e dei casi che scandisce esistenze longeve (molti dei personaggi principali sono vecchi o vecchissimi) nelle vite più che brevi e immaginarie di Franceschini restano solo questi scampoli, sbrendoli e minuzie. Restano “le pause, i piccoli gesti, i frammenti” citati in uno dei racconti; e sono istantanee che tuttavia non finiscono per disorientare, ma piuttosto per affermare o confermare qualcosa: di solito, che la vita da cui sono tolte, di cui si sa poco o nulla, è stata ben vissuta e potrebbe chiudersi in pace. Alludono ad un senso che esiste e si segnala immancabilmente attraverso una fessura. Anche quando ciò che si intravede nello spiraglio è l’assenza di senso, il nulla, la morte: “Andrea sorrideva e a tutti quelli che lo avevano conosciuto sembrava normale, mentre non era affatto normale che un morto avesse un sorriso sul volto”.
La costanza in tutta la raccolta di questa sorta di minuziosa vagliatura biografica rende infine ragione della scarsa resa di quei racconti, sostanzialmente i due conclusivi, che al contrario cedono all’autobiografismo in maschera e che sarebbe stato opportuno chiudere fuori. Lo si sente, d’altra parte, che anche Franceschini, come tanti, è tanto più felice quanto più si discosta da se stesso: quanto più risolve in eventi minimi, con una “visione obliqua”, intere vite altrui, solo spazio in cui il bilancio, alla fine, torna sempre e il male potrebbe anche non esistere.
santerodan@hotmail.com
D Santero è insegnante e critico letterario