Defamiliarizzare il quotidiano: il Nobel a Kazuo Ishiguro

Quel lavorìo carsico che avvince il lettore

di Pietro Deandrea

dal numero di novembre 2017

“L’arte sottile” di Ishiguro possiede un’eleganza “fredda e sofisticata (…) che lascia in sospeso i sentimenti dei suoi personaggi”. All’indomani dell’assegnazione del Nobel, così su doppiozero.com scrive Susanna Basso, una delle sue traduttrici. Basso tocca il punto cruciale della narrativa dell’autore, cioè un procedere per tratti lievi, talvolta impercettibili, un lavorìo carsico che scava sottopelle nel lettore per catturarlo in maniera graduale e irreversibile. Basti pensare a Mr. Stevens, protagonista del romanzo che ha portato Ishiguro al successo mondiale, Quel che resta del giorno (1989): un maggiordomo old style e perfezionista che vede sgretolare, in modo lento ma inesorabile, i propri valori di riferimento.
“Un maestro assoluto di stile”, ancora Basso lo definiva in Sul tradurre (Bruno Mondadori, 2010). Per chi ama Ishiguro, questa prima valutazione è di per sé più che sufficiente a giustificare il Nobel. Ma allo stesso tempo contiene due obiezioni espresse in queste settimane dalle voci in disaccordo. È un autore “freddo”, appunto. E non ha scritto molto, che è vero, perché produce libri con sempre maggiore lentezza, in maniera analoga al procedere delle sue trame.

Per una lingua essenziale

Oltre all’affascinante costruzione di trame, però, sono numerose le qualità che rendono meritatissimo questo Nobel. A partire dal talento beckettiano per una lingua essenziale (“parole nude”, scrive ancora Basso) che nasconde un ampio ventaglio di potenzialità polisemiche, infiniti spiragli di significato. Viene in mente, a questo proposito, il narratore di Un artista del mondo effimero (1986), nelle cui memorie di pittore e intellettuale pubblico riecheggia sinistramente il “nuovo spirito” del Giappone pre-bellico.

Ishiguro è un maestro nel defamiliarizzare il quotidiano, l’apparente innocenza del linguaggio e delle azioni più banali “di cui non ci accorgiamo più”, come ha dichiarato l’autore a Francesca Borrelli sul “Manifesto”. La stessa Accademia di Svezia ha motivato il Nobel menzionando “l’abisso che si cela dietro la nostra ingannevole sensazione di essere in relazione con il mondo”. È un lavoro sulla lingua che rende insidioso il compito del traduttore, mai in condizione di abbassare la guardia perché anche la scelta traduttiva più ragionata rischia di escludere altri potenziali rimandi di significato. Per questo meritano una lode quelli che per Einaudi l’hanno reso in italiano, oltre a Basso: Gaspare Bona, Laura Lovisetti Fuà, Paola Novarese, Mariantonietta Saracino.

Non lasciarmi

Il defamiliarizzare “a goccia” di Ishiguro si scontra con un’altra delle obiezioni post-Nobel, secondo cui è un autore che scrive soprattutto pensando al cinema. In realtà è difficile vedere il successo sul grande schermo di Quel che resta del giorno (1993) e Non lasciarmi (2010) come conseguenza del suo stile, la cui lentezza stratificata non è affatto adatta alle due ore della forma-film, anzi. Infatti chi lo adora come romanziere è ben consapevole della qualità non eccelsa dei racconti di Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo (2009): Ishiguro non possiede il fiato narrativo adatto alle distanze della forma breve. Il successo di quei film, piuttosto, mi sembra dovuto a due grandi registi (James Ivory e Mark Romanek) e al talento di due generazioni di attori che, in sintonia con i romanzi, sanno esprimere vulcani emotivi attraverso una recitazione appena accennata (Anthony Hopkins, Emma Thompson, Carey Mulligan, Andrew Garfield).

Nelle ultime due opere, Ishiguro ha ampliato il proprio orizzonte narrativo con sconfinamenti di genere, nel campo della distopia e del romanzo cavalleresco/favolistico. Non lasciarmi (2005) è diventato forse il suo romanzo di maggior successo, e ciò non deve stupire. Definito un Blade Runner in versione bucolica, questa storia di ragazzi/cloni educati in un paradisiaco collegio d’arte al fine di poter donare i propri organi, una volta divenuti adulti, ai “normali” ammalati (anche qui la drammatica consapevolezza del destino che li attende segue un lento, angosciante disvelamento) ha affascinato vaste comunità di critici, studenti e semplici lettori. Coerentemente con la semplicità del suo linguaggio, Ishiguro ne parla in termini universali, come di un romanzo sul valore della vita di fronte alla morte. Ma al di là di ogni intenzione autoriale, in pochi anni Non lasciarmi ha generato numerosissime interpretazioni, talvolta politiche, che hanno messo in luce temi come il valore della memoria, l’accettazione passiva dell’individuo di fronte agli abusi di potere, il post-umano, il ruolo dell’istruzione e dell’arte, i diritti umani, il bio-potere foucaultiano incarnato in personaggi concreti, oppure lo sfruttamento di matrice coloniale del liberismo globalizzato che riduce l’umano, e in primis i giovani, a oggetto di consumo. A fronte di certe letture, riesce difficile condividere l’opinione di chi vede questo Nobel come scelta neutra, apolitica e poco scomoda in tempi di Brexit. La mia esperienza mi ha mostrato il fascino esercitato dal romanzo su molti studenti universitari; mi è persino capitato di valutare un paper d’esame che lo interpreta secondo la teoria del paleo-contatto dell’umanità preistorica con astronauti alieni, e costruito con argomentazioni convincenti! So di insegnanti delle scuole superiori che lo hanno fatto leggere alle loro classi, anche qui con notevoli riscontri

Il gigante sepolto

Se, come per Shakespeare, il miglior Ishiguro scava su molteplici livelli e avvince varie categorie di lettori, l’ultimo romanzo Il gigante sepolto (2015) è molto più complesso ed esigente, oltre che controverso. Nella terra dei Britanni e dei Sassoni dopo il periodo di Re Artù, una coppia di anziani attraversa contrade popolate da orchi, elfi, spiriti e draghi, con sconfinamenti in una dimensione onirica che ricorda la sua opera più criptica, Gli inconsolabili (1995). Una nebbia misteriosa ha cancellato i ricordi collettivi, in questo fantasy meta-ishiguriano che riflette sulla doppia valenza della memoria: ha senso sforzarsi di ricordare guerre e atrocità del passato? “Chissà che potrà succedere non appena uomini lesti con la lingua faranno rimare gli antichi rancori con la novella brama di terre di conquista.”

Inevitabile leggere politicamente anche questo romanzo, e pensare a rimandi contemporanei come Jugoslavia, Sudafrica o Ruanda. Ma per il lettore meno impaziente (e forse meno giovane), Il gigante sepolto cattura innanzi tutto grazie alla semplicità della trama principale, una storia d’amore tra due anziani con parecchie ombre sepolte nel passato, che ostinatamente proseguono il cammino: “Guardiamo con occhi liberi il sentiero che ci ha portati qui insieme, sia nel buio o sotto un tiepido sole”. E come nelle sue opere precedenti, Ishiguro prende per mano il lettore e gli solleva dallo sguardo la nebbia del nostro oblio quotidiano: “Queste strade mi dovrebbero risultare ignote,” osserva un personaggio. “Eppure, a ogni curva è come se mi si agitasse dentro un ricordo nuovo”.

pietro.deandrea@unito.it

P Deandrea insegna letteratura inglese all’Università di Torino

Struttura a orgasmo multiplo: sul numero di novembre 2017 Pietro Deandrea recensisce Il gigante sepolto.