L’oltretomba di un’umanità liminale
recensione di Vincenzo Lavenia
dal numero di ottobre 2017
Chiara Franceschini
STORIA DEL LIMBO
pp. 544, € 45
Feltrinelli, Milano 2017
Una delle lunette della sacrestia dello splendido ospedale senese di Santa Maria della Scala ospita un affresco di Lorenzo Vecchietta, datato 1449, in cui Cristo disceso agli inferi dopo la resurrezione estrae Adamo dalle tenebre, mentre i diavoli trattengono le anime nude dei bambini morti senza battesimo e senza colpa propria, a cui non è permesso di salire in cielo e di godere di un destino analogo a quello del primo uomo e di altri patriarchi del Vecchio Testamento. Una sorte crudele, a giudizio di molti, e tanto insostenibile che oltre tre secoli più tardi il fiorentino Filippo Mazzei avrebbe dubitato della propria fede avendo saputo della fine opposta toccata a due bambini morti subito dopo la loro nascita: uno era stato battezzato in tempo da una solerte balia, l’altro era perito senza il segno efficace della grazia per la negligenza di una seconda comare. Stando all’opinione prevalente nella chiesa romana, l’anima del secondo, senza colpa personale, avrebbe viaggiato verso il limbo, lo spazio dell’oltretomba che un atto ufficiale della sede apostolica, nel 2007, ha dichiarato una semplice “ipotesi teologica” che merita di essere accantonata a conclusione di una controversia iniziata molto tempo fa. Con quel documento (forse) ultimativo, e con la fine della storia, si apre la ricerca di Franceschini, ospitata nella collana “Campi del sapere” diretta da Carlo Ginzburg e germinata durante un seminario sul battesimo tenutosi alla Scuola Normale di Pisa e proposto da Adriano Prosperi nel 2003-2004.
Chi si aspetti di trovare in questo superbo libro l’arida storia teologica di un luogo intermedio dell’aldilà sarebbe fuori strada: mescolando testi di dottrina, normativa funeraria, pagine di letteratura, note filologiche, racconti di miracoli, censure inquisitoriali e un’ingente mole di fonti iconografiche, Franceschini riflette su un nodo centrale come quello del rapporto tra i vivi e i morti nella tradizione cristiana dando corpo a un’indagine ben diversa da quella, celebre, che Le Goff ha dedicato alla nascita del purgatorio (1981). Senza fare della teologia un diretto riflesso della composizione economico-sociale, il testo privilegia le rappresentazioni guardandosi dall’operare distinzioni nette tra le aspettative dei fedeli e le elaborazioni delle gerarchie ecclesiastiche, tra l’alto e il basso, tra l’immaginario e la realtà. Di solida scuola warburghiana, questa storia evidenzia come la scelta agostiniana e anti-pelagiana di delimitare il recinto della chiesa e della salvezza ultraterrena con la dottrina del peccato originale e della necessità di impartire precocemente il battesimo nell’acqua per cancellarlo, dare accesso alla comunità dei fedeli immediatamente dopo la nascita e permettere all’anima che lascia il corpo di partecipare del regno della grazia ebbe conseguenze non solo per l’ecclesiologia ma anche per il trattamento dei defunti senza il primo sacramento (seppelliti in un luogo non consacrato e consegnati a una condizione minacciosa, contaminante e liminale) e per le concezioni occidentali dell’aldilà.
Su quel piano la tradizione apocrifa del Vangelo di Nicodemo, con il racconto della discesa di Cristo risorto agli inferi per aprire le porte della salvezza ai patriarchi del Vecchio Testamento, si mescolò con il retaggio dei miti di catabasi greci e latini. Materiali della cultura classica pagana e concezioni cristiane di incerto statuto teologico, lentamente, diedero vita a un nome (il limbo, “l’orlo”) e a un’architettura instabile dei luoghi intermedi dell’aldilà destinati a ospitare non solo i precursori di Cristo sub lege nel cosiddetto “seno di Abramo” (dal Vangelo di Luca), ma anche due altre categorie umane non bagnate dalla purificazione battesimale: i feti e i bambini morti anzitempo, prima che il rito fosse impartito (ombre liminali), e i giusti del mondo pagano. Se la visione di Dio (immediata o meno che fosse: la questione fu risolta dal papato nel XIV secolo) era riservata ai battezzati, che ne era delle anime dei patriarchi segnati con la circoncisione, dei nascituri periti nel ventre (senza l’aspersione dell’acqua) e dei neonati defunti prima del battesimo incolpevoli? Le fiamme dovevano consumarli in eterno?
Il limbo, luogo separato ma dell’inferno, nacque come la risposta a un problema teologico e come uno spazio per collocare una classe di confine dei morti. E tuttavia, se il purgatorio, dopo il XIII secolo, finì per essere riconosciuto dalla chiesa latina come luogo temporaneo di espiazione che permetteva, in attesa del Giudizio, un virtuoso rapporto tra i vivi e i morti tramite suffragi ed elemosine, che ne era dei bambini non battezzati? Che pena eterna avevano meritato le loro anime innocenti? Se ai patriarchi si riconobbe, tramite il trionfo di Cristo sulla morte, il passaggio in paradiso, con tanto di rappresentazioni iconografiche già presenti nel mondo bizantino ma rielaborate in Occidente, la concezione duale dell’aldilà non poté resistere perché rimodulata dall’invenzione del purgatorio, mentre l’immaginario infernale si complicava per il bisogno di ubicare il seno di Abramo e uno spazio distinto per i bambini morti anzitempo. Grotta, voragine o bocca che fosse, nel limbo non poteva esserci il castigo delle fiamme (riservato alle colpe personali) ma una semplice privazione destinata non più ai patriarchi ma ai bambini senza battesimo.
Eppure, spiega Franceschini, per secoli i teologi non furono concordi e mancarono rappresentazioni del limbus puerorum. Inoltre la potenza figurale della Commedia influenzò le immagini ben oltre i limiti della dottrina, quando Dante descrisse i suoi primi passi all’inferno (canto IV) incontro ai pagani e agli infedeli virtuosi (Averroè!) collocati senza sofferenza nel limbo. Franceschini dedica all’invenzione dantesca alcune delle pagine più raffinate del libro, sottolineando la distanza del poeta dalle correnti concezioni teologiche e l’irrompere di una questione che precede il Rinascimento: quella della salvezza dei pagani e degli infedeli magnanimi vissuti anche dopo il sacrificio di Cristo. Due secoli prima che la scoperta dell’America facesse porre ai teologi la domanda sulla salvezza di milioni di anime incolpevoli e inconsapevoli della buona novella vissuti senza battesimo, il limbo della Commedia (chiosato dai commentatori) relegava al margine i bambini e poneva al centro i non cristiani.
In un libro che mette a fuoco soprattutto i secoli XIII-XVII e che privilegia fonti italiane e toscane, specificando che l’insistenza iconografica e letteraria sul limbo non ha una geografia e una storia uniformi in tutta Europa, la dialettica tra normazione canonistica, dottrina teologica e invenzione (di scrittori e di artisti) appare uno degli aspetti più interessanti della narrazione. Passando forse un po’ rapidamente sulla predicazione degli ordini mendicanti nel XIV-XV secolo, l’autrice analizza il dibattito teologico da Pietro Lombardo al concilio di Firenze, e poi da Tommaso De Vio alla Riforma e oltre; la nascita dei santuari à répit (in cui si sarebbe operata la miracolosa resurrezione dei feti e dei bambini morti per il tempo sufficiente a impartire il sacramento); alcune rappresentazioni teatrali di cui conserviamo memoria manoscritta e a stampa; pagine di Machiavelli che acquistano nuova luce, e soprattutto la produzione di pittori come Mantegna, fra’ Bartolomeo, Raffaello e Michelangelo, con una lettura iconografica acutissima che svela il significato di opere note e meno note riconducibili, almeno in parte, al tema del limbo dei bambini (il Tondo Doni) o dei pagani (le Stanze Vaticane). A essere sconfitta, dal XVI secolo, fu una linea teologica domenicana (ma non di tutto l’ordine) che ammetteva una possibile beatitudine eterna, senza pena e “naturale”, per i bambini (e i pagani) morti senza battesimo; e le soluzioni di Antonino Pierozzi e di Savonarola, ma anche del Gaetano – che rischiarono di mettere in crisi la dottrina del battesimo e del peccato originale e il rapporto tra fede e grazia –, contribuiscono a spiegare perché la Firenze umanistica ha un ruolo centrale in questa storia. Del resto, dopo la Riforma – che cancellò il limbo e diede soluzioni differenti al problema dei bambini morti senza battesimo – non si poté ammettere né la pensabilità di una condizione ultraterrena di gioia e di “gioco” che attenuasse l’angoscia del limbo o la sua condizione di malinconica perdita della visione di Dio in virtù di un voto battesimale dei genitori dei feti e dei neonati defunti, né la sua rappresentazione letteraria e iconografica, come prescrisse Federico Borromeo. Il limbo dei patriarchi non pose grandi problemi; quello dei pagani cessò di fatto di esistere; quello dei bambini sopravvisse senza che il concilio riunitosi a Trento, che condannò l’estremo agostinismo, la rinata tentazione pelagiana e l’anabattismo, ne facesse una dottrina canonica. I santuari di rinascita vennero tollerati; la controversia fu censurata, quando necessario; la pittura cattolica adeguò la rappresentazione e rinunciò in gran parte a inventare soluzioni più o meno in conflitto con una teologia che avrebbe continuato a discutere senza che la sede apostolica si pronunciasse fino a dieci anni fa.
Ai giorni nostri, forse, la scristianizzazione, il calo delle nascite, la quasi sconfitta delle morti premature e l’ossessione anti-abortista che ha caratterizzato la chiesa romana fino a Ratzinger, hanno reso inutile il limbo. E tuttavia, spiega Franceschini, il rapporto tra natura e grazia (il nodo della salvezza) resta la ragione sociale del cristianesimo. Un fatto è certo: questa storia del limbo, fatta di pennellate e di sottili cesellature, di sorprendenti analisi minute e di rapide incursioni in territori a volte pigramente noti e a volte non mappati, si segnala come esempio raro di scrittura colta che in nulla cede alle mode interpretative (la storia delle emozioni), al vocabolario esoterico di una certa storia dell’arte e allo specialismo dei recenti studi umanistici. Così, secondo un’ambizione appena dissimulata, questo testo può diventare un piccolo classico e una lezione che ci ricorda come partendo dai margini si possano aprire le porte di grandi questioni.
v.lavenia@unimc.it
V Lavenia insegna storia moderna all’Università di Macerata