Tito Pioli – Ho sposato mia nonna

Precari, esodati e il linguaggio dello smarrimento

recensione di Chiara D’Ippolito

dal numero di ottobre 2017

Tito Pioli
HO SPOSATO MIA NONNA
pp. 224, € 17
Del Vecchio, Bracciano 2017

Sarebbe bello poter comprare degli occhiali come quelli di Igino, uno dei personaggi stralunati e allo stesso tempo grotteschi che affollano il secondo romanzo di Tito Pioli, libraio antiquario di Parma che “legge le interviste al contrario, va al mare da solo e festeggia il Capodanno con gente che non conosce”, e già autore di Alfabeto Mondo, “romanzo abbecedario” segnalato nel 2016 dal comitato di lettura del Premio Calvino. Degli occhiali che, quando togli la “panna” dalle lenti, è come essere in un film, anzi, in tanti film, e “vedi un mondo che nessun altro vede, il mondo dove le cose vengono fuori poco a poco, se metti un dito sul vetro dell’occhiale ritrovi un volto, ritrovi a poco a poco una scritta su un negozio che non guarda nessuno, un fiore reciso che nessuno ha colto”. Ovviamente, nella realtà, occhiali così non sono in vendita, e non esiste nemmeno una campanella come quella inventata dai due protagonisti di Ho sposato mia nonna, Tato e sua nonna Norma, una campanella che, quando suona, la gente esce dalle fabbriche, dalle caserme, dagli uffici (e, persino, dagli stadi mentre c’è la partita), e si mette in cerchio, come a scuola durante l’intervallo, e tutti parlano con tutti, anche con chi non si conosce.
Per fortuna, però, esistono scrittori che, per utilizzare un’espressione di Manganelli a proposito di Gianni Celati, possiedono un’intonazione unica, un linguaggio speciale, “il linguaggio dello smarrimento”, in grado far emergere tutto ciò che è sommerso o non immediatamente visibile ai più, attraverso una scrittura straniante e, insieme, surreale e ironica. Tito Pioli è uno di questi, ed è proprio nelle prime opere di Celati che si intravedono le radici di questo (anti)romanzo che descrive la realtà nella sua crudezza e nella sua bizzarria attraverso gli occhi di due flâneur dei nostri giorni: il giornalista precario Tato, che per il suo blog raccoglie le storie, impossibili e strane, che nessuno vuole raccontare, e l’esodata Norma, che parla al contrario e ha la mania di prendere le misure del mondo con una squadra.
In risposta alla nota di Italo Calvino al suo Comiche, Celati scrive: “Niente mi interessa come la bagarre, quando tutti si picchiano, tutto scoppia, crolla, i ruoli si confondono, il mondo si mostra per quello che è, cioè isterico e paranoico, e insomma si ha l’effetto dell’impazzimento generale”.
L’interesse di Pioli sembra essere il medesimo, e, infatti, Ho sposato mia nonna è il racconto lucido e spesso spietato di un mondo in cui l’unico filo conduttore, anzi, “la sola vera droga che eccita questo mondo”, è la morte: i porti sembrano bombardati, anche se la guerra non c’è; le nonne sono costrette a fare le puttane, i migranti ottengono un permesso di soggiorno solo se vincono un concorso di bellezza. Tato e sua nonna vivono a Rebibbia – ma potremmo essere in un quartiere qualsiasi di qualsiasi altra città italiana – e vagano per strade che sembrano popolate solo da umiliati e offesi, da personaggi ai margini per i quali l’unico modo per sopravvivere è apparire in televisione e fare della propria sofferenza una forma di spettacolo.
In mezzo alla violenza, però – e di nuovo non si può che pensare a Celati – c’è spazio anche per la poesia e per la bellezza, anche se sembrano solo un equivoco, o un’apparizione fugace, come quella di Kafka, al quale i due protagonisti, in fuga dalla conduttrice Vania Vacuo che vuole fare di loro delle star televisive, scrivono una lettera: “Franz ci manchi, a me e a mia nonna, sei lontano Franz, noi avremmo voluto vederti mentre ti vestivi la mattina, avremmo voluto vederti mentre scrivevi la notte, avremmo voluto vederti mentre mangiavi a tavola. Avremmo voluto vederti Franz, mentre scrivevi la lettera alla bambina che aveva perso la sua bambola”. E, come in un romanzo, o in un sogno, Kafka appare, e sorride a Tato e a sua nonna Norma.