L’anima di una città
di Enrico Terrinoni
dal numero di ottobre 2017
Secondo Steve Sohmer “l’Illiria di Shakespeare è tormentata da idiomi indecifrabili”; questo perché la terra in cui è ambientata la Dodicesima notte è un luogo d’invenzione, ritenuto esotico in virtù di una distanza spaziale, culturale e temporale. Ma fantasia e realtà si incontrano. E infatti, quando Napoleone creò l’ibrida unità amministrativa delle province illiriche, un simile mosaico di territori eterogenei eppure affini (l’Istria, la Dalmazia, le contee di Gorizia, Trieste e Gradisca, parte della costa croata, della Carinzia e del Tirolo) non poté non suggerire scenari simili a quelli immaginati dal Cigno dell’Avon.
Fauna umana di viaggiatori
La regione, tra i cuori della Mitteleuropa, è da sempre un crogiolo di lingue e culture, un punto di approdi e di partenze, un crocevia di flussi umani, e la meta di curiosi, turisti e viaggiatori. E il cuore del suo cuore è la città di Trieste. “Cosa c’è in un nome?” si chiederebbe una Giulietta che, sempre stando alle fantastiche ricollocazioni geografiche del bardo, sarebbe un’italiana del nord est. Quasi come i triestini. Ma se l’etimologia della città è ancora oggetto di discussione, le sue associazioni parafoniche e letterarie portano lontano. Se ne accorse Joyce, che ne trasse spunto per creare legami con Tristano, con la tristitia bruniana, con il Tristram di Sterne, e così via.
L’anima di Trieste è ben colta da un prezioso studio di Elisabetta D’Erme: Trieste vittoriana. Ritratti (pp. 363, € 20, fuorilinea, Monterotondo (RM) 2017). Il libro si compone di cinque sezioni e ripercorre la percezione della città, nell’immaginario inglese, tramite la riproposizione di materiale spesso inedito: annotazioni di viaggio, impressioni e stralci di diari appartenenti a personaggi noti e meno noti, affascinati da questa porta aperta sui Balcani e su “gli altri che non conosciamo”, per dirla à la Amleto.
Se le sezioni principali riguardano nomi di rilievo della cultura europea come Charles Lever, Richard Burton e William Balfe, non di meno interesse è quella iniziale, in cui si dipana una teoria ragionata di contributi provenienti da una fauna umana disparata di viaggiatori vari. Una categoria che, sulla scia declinante del Grand Tour aristocratico del Settecento, grazie all’ascesa della borghesia mercantile del secolo successivo appare sempre più affollata. Consta di “funzionari delle colonie, ufficiali in servizio, commercianti e missionari, pellegrini, architetti e scrittori, malati cagionevoli alla ricerca del sole”, ma anche di “quei cittadini britannici che, mossi quasi da un istinto migratorio, partivano spinti dalla passione, dal puro piacere di viaggiare”.
Siamo di fronte a una dicotomia, quella tra turista e viaggiatore, che appare dirimente soprattutto alla luce della nuova grammatica percettiva della città, riscritta dai resoconti di consapevoli o inconsapevoli esuli. Come lo scrittore irlandese Charles Lever, autore di decine di fortunati romanzi, adorato da Marx ma stroncato da Poe. Si ritrova a Trieste come console britannico, e lì conduce gli ultimi anni di vita tra la malinconia del fallimento e la sensazione di essere imprigionato.
“Non ho mai odiato un luogo o la sua gente in maniera così intensa,” scrive nel 1868; ma forse, il suo astio non è dovuto alla città in sé, quanto alle mansioni a cui doveva tristemente assolvere un romanziere a cui toccò però di essere uno strumento dell’impero: una pedina soggetta “all’umiliazione di servire quell’essere sgradevole che è il commerciante britannico nei porti di mare”. Come stupirsi, allora, se poi il suo conterraneo e concittadino Joyce conierà il termine brutish: “brutannico”!
Trieste perduta
Alla morte di Lever, il ruolo di console passa a Richard Burton, traduttore del Kama Sutra e delle Mille e una notte, esploratore, antropologo, orientalista e cosmopolita, ma dai tratti fortemente imperialistici e non scevro da pregiudizi razziali. Il suo fantasma si aggira persino tra le pagine di Jorge Luis Borges. Di estremo interesse è poi il capitolo su un altro irlandese vissuto a Trieste, Michael William Balfe, le cui opere fecero il giro dei teatri europei per poi cadere nel dimenticatoio del Novecento, forse a causa della trasformazione del gusto e della loro “inattualità”. Consola il fatto che riviva eterno nell’opera tutta di Joyce, da Gente di Dublino a Finnegans Wake. Come baritono fu tenuto a battesimo da Rossini, ed ebbe modo di collaborare a Londra persino con Verdi, con cui condivideva, suggerisce Elisabetta D’Erme, un cruciale “elemento popolare”. Non poteva mancare, infine, un capitolo su Joyce; ma come scoprirà il lettore, non si tratta del grande autore irlandese vissuto a Trieste, ma di un suo forse omonimo, probabilmente conterraneo, intenditore di scienze, e sottile osservatore della realtà che lo circonda.
Col ritratto di questo fantomatico J. Joyce si chiude un libro chiave non solo per la riscoperta di una Trieste perduta e per la godibilità di profili disegnati con cura, ma anche per informazioni inestimabili sulle trame ancestrali di una storia europea che ancora si stenta a immaginare condivisa.
enricoterrinoni@icloud.com
E Terrinoni insegna letteratura inglese all’Università di Perugia