Polisemia mallarmeana
di Chetro de Carolis
dal numero di settembre 2017
Stéphane Mallarmé
POESIE
a cura di Luca Bevilacqua
ed. orig. 1887, trad. dal francese di Chetro De Carolis
pp. 384, € 20
Marsilio, Venezia 2017
Tradurre Mallarmé. Ho sempre ritenuto feconde le contraintes, ma tradurre Mallarmé… Sempre che la poesia possa essere tradotta. Eppure continuo a farlo, istintivamente, come se tradurre fosse il mio modo di penetrare l’opera nel più profondo, di assimilarla quasi cannibalescamente.
Non starò a ripetere con parole troppo povere quanto sia unica la sua poesia, unica anche in quanto non univoca. Come renderne la polisemia? in una lingua come l’italiano, poi, priva del tessuto di omofonie del francese che spesso sono strumento dell’ambiguità mallarmeana? E come farlo, soprattutto, non storpiando la musica e i silenzi originali?
Ho voluto tuttavia raccogliere la sfida, consapevole che questo mio “idumeo” travaglio poteva originare, nel migliore dei casi, un enfant non del tutto mostruoso. Innanzitutto mi sono data dei principi; aggrappandomici, malgrado avessero anche svantaggi. Ma erano miei, e per lo meno avrebbero distinto la mia versione dalle tante precedenti edizioni in italiano, quelle di “semplici” traduttori (tra cui spiccano de Nardis, Frezza, Ortesta) e quelle di poeti, quali Luzi, Ungaretti, Valduga. Questi criteri li ho scelti su una base pratica, partendo da mie precedenti esperienze nel campo della traduzione poetica e dall’osservazione dei modi di procedere altrui, e, soprattutto, facendo una serie di tentativi su campioni di poesie di Mallarmé al fine di sperimentare le varie possibilità – versioni metriche, ritmiche, o ancora letterali, non in versi, ispirate a quel “calco senza pretese” che Mallarmé fece del Corvo di Poe. Ho infine optato per una traduzione in versi, che rispettasse la struttura e la metrica originali. In particolare, ho risposto all’alessandrino con il martelliano: verso doppio con cesura interna come quello francese, che mi permetteva di riprodurre gli scarti dalla norma del verso classico spesso operati da Mallarmé, cosa che non mi avrebbe consentito l’adozione dell’endecasillabo, anche se in sé più bello e più corrispondente all’alessandrino in quanto a nobiltà.
Insieme al metro, ho cercato di ricalcare il ritmo. Per quanto riguarda le rime a fine verso, ne ho seguito lo schema, ma sostituendole quasi sempre con rime improprie, o assonanze: la vera e propria rima, oltre a risultare pesante nel già “martellante” martelliano, mi avrebbe spesso forzata ad allontanarmi dalla lettera. Per quanto mi è stato possibile, ho tentato di riprodurre l’insieme sonoro del componimento, considerando come unità fonica l’intera strofa più che il singolo verso. La lettura ad alta voce – momento della mise en bouche cui il poeta dava tanta importanza – è stata una pratica corrente per confrontare il suono delle mie versioni con quello dei suoi versi. Parallelamente a tutto ciò, ho tenuto ad aderire al massimo alla sintassi e al lessico originali. Convinta che la ricercatezza della lingua di Mallarmé stia nella decontestualizzazione sintattica e nell’uso di termini comuni posti in un ambito linguistico inusuale, più che nell’impiego di termini ricercati in sé, ho sempre riprodotto le deviazioni dalla norma sintattica (spesso vettori dell’indecifrabilità tipica della sua poesia) e ho evitato l’uso di termini inusitati quando non presenti nell’originale. Ho cercato così di sfuggire a due tendenze ricorrenti in altri traduttori: la banalizzazione della sintassi a fini esplicativi e le aggiunte di termini insoliti volte a mimare la ricercatezza dell’originale. Quest’ultimo criterio costituisce dunque la cifra più innovativa del mio modo di procedere.
Le suggestioni della duplicità semantica
Torno infine all’ardua questione della polisemia della poesia mallarmeana: ogni volta che ho potuto, l’ho lasciata intatta. Spesso, il passaggio linguistico mi ha costretto a optare per un solo significato, escludendo a malincuore l’altro/gli altri. Poiché, in questa sede, mi era stato chiesto di dire qualcosa sulla mia “esperienza” di traduttrice di Mallarmé, concluderò facendo un esempio pratico di una tra le tante scelte che ho dovuto fare. Nel tradurre l’Ouverture ancienne di Hérodiade, un certo vocabolo mi è parso avere un doppio senso che, per quanto ne sappia, non è mai stato rilevato: si tratta del sostantivo pensée, ed ecco i versi:
Cette voix (…) / Encore dans les plis jaunes de la pensée / Traînant, antique, ainsi qu’une toile encensée / Sur un confus amas d’encensoirs refroidis, / Par les trous anciens et par les plis roidis / Percés selon le rythme et les dentelles pures. “Pensée” ha qui certo il senso di “pensiero”, il quale, nella poetica di Mallarmé, può avere risvolti complessi, confusi o di tonalità incerta, soprattutto quando è ripiegato su sé stesso, come il poeta descrive il proprio, giusto nel periodo in cui concepisce Hérodiade: “Ho appena trascorso un anno spaventoso. Il mio Pensiero si è pensato”. Ma la pensée non potrebbe essere qui anche il fiore, quella viola del pensiero, o viola tricolor, uno dei cui petali è giallo? Un fiore che non stona nell’ambientazione fanée della strofa, né nel più ampio immaginario mallarmeano (si pensi alle “mourantes violes” di Apparition o alle “violettes” di un frammento del Fauno). Specialisti di Mallarmé a cui mi sono rivolta hanno pure confortato questa ipotesi di duplicità semantica. La mia tentazione di tradurre con “pensée” o “pansé”, come in italiano viene spesso chiamato quel fiore, è stata forte; ma non ho avuto il coraggio di prediligere questa interpretazione, che avrebbe inevitabilmente scartato il rinvio al significato di “pensiero”. Ecco dunque i miei versi: La voce (…) / Ancora indugiando tra le pieghe giallastre / Del pensiero, antica, come incensato drappo / Su un ammasso confuso di freddi incensieri, / Tramite vecchi buchi e irrigidite pieghe / Traforate secondo il ritmo e i pizzi puri.
Resta il rimpianto.
cdecarolis@gmail.com
C. De Carolis è traduttrice
L’edizione delle Poesie di Stéphane Mallarmé curata da Luca Bevilacqua è stata recensita nel numero di settembre 2017 da Vincenzo de Santis.