La spianata
di Anna Nadotti
dal numero di gennaio 2014
Jhumpa Lahiri
LA MOGLIE
ed.orig. 2013, trad. dall’inglese di Maria Federica Oddera
pp. 425, € 18
Guanda, Milano 2013
“L’Indice” ha seguito passo passo l’affermarsi di Jhumpa Lahiri (cfr. 2000, n. 9 e 2008, n. 11) e ha segnalato questo suo ultimo romanzo (finalista al Booker Prize 2013) in occasione del lancio in India (2013, n. 10). L’edizione italiana suggerisce tuttavia qualche riflessione. La storia, in breve, è quella di due fratelli che sposano la stessa donna. La morte del primo induce il secondo a sottrarre Gauri, studentessa brillante e volitiva, al destino di reclusione tuttora riservato alle vedove in India. Sposandola e portandola con sé negli Stati Uniti, le offre una seconda possibilità di vita. Negli Stati Uniti la coppia avrà un’esistenza complessa, di successo nei rispettivi campi professionali, ma anche dolorosa per il perdurare di silenzi e sensi di colpa, e per la difficoltà di parlare di sé all’unica figlia. Lahiri racconta con precisione, con tenerezza, illuminandoci sul passato dei protagonisti con lunghi flashback. Tra l’università di Calcutta e i campus dell’East Coast nei primi anni settanta, tra fedeltà al passato e desiderio di un’esistenza nuova, tra consapevolezza e rimozione.
Tutto inizia a Calcutta, dove Udayan muore in uno scontro a fuoco con la polizia, negli anni delle prime rivolte naxalite (sul movimento naxalita cfr. Prem Shankar Jha, “L’Indice”, 2010, n. 5). Su quegli anni, su quei violentissimi encounters, Mahasweta Devi ha scritto pagine memorabili: del suo Mother of 1984 si sente intensamente l’eco nel romanzo di Lahiri, nato da uno scampolo di autobiografia familiare di cui l’autrice ha parlato in varie interviste. Quasi volesse aggiungere un tassello problematico all’immagine patinata di scrittrice globalizzata che le viene cucita addosso. Da qui la perplessità sul titolo scelto per l’edizione italiana: La moglie. Rispetto all’originale The Lowland, la spianata, concentra inopportunamente l’attenzione su Gauri e distoglie il lettore dal luogo, letterale e simbolico, dove ha inizio la storia. Il nucleo narrativo è lì, lì devono tornare tutti i personaggi, in cerca di una spiegazione, di una tardiva verità.
La copertina – due vasi di fiori su fondo bianco e uno strillo banale, “Un romanzo bellissimo”, e poco importa che lo firmi Khaled Hosseini – accentua l’impressione fastidiosa che si voglia strizzare l’occhio a un pubblico di lettrici (comunque benvenute, e spesso più attente di quanto pensino gli uffici marketing). Ma a un esame più ravvicinato la grafica di Guido Scarabottolo sembra scomporsi: due vasi di fiori, ciascuno con tre fiori, allusione forse a una storia a tre, in realtà a quattro, visto il ruolo cruciale della figlia. Un vaso, rosso con dentro tre tulipani rossi, poggia su un rettangolo – una spianata? – color sabbia, proiettandovi la propria ombra. L’altro vaso, marrone con tre fiori di vari colori e privo di ombra, spunta al di là del rettangolo: oltre la spianata? Un gioco di colori e geometrie che rimanda evocativamente alla difficoltà di fare i conti con un dramma avvenuto in un luogo lontano, e alla possibilità di ricominciare altrove la propria vita. Tema caro a Lahiri fin dai suoi primi splendidi racconti.
Infine l’epigrafe, una citazione da Saluto a Roma di Giorgio Bassani, “Lascia ch’io torni al mio paese sepolto nell’erba come in un mare caldo e pesante”, conferma la lettura in questa chiave del romanzo, sottolineandone la continuità con le opere precedenti, di cui tuttavia sembra aver perso la nitidezza di scrittura. Ma, in questa mia ricerca di indizi, vedo nello “sporcarsi” della scrittura – qui ancora mediato dalla traduzione – un motivo di interesse, perché Lahiri, da tempo residente in Italia, sembra intenzionata ad adottare la nostra lingua. Un travaglio linguistico che spiega l’appiattimento paratattico e l’insistenza descrittiva. Faticosi esercizi di transizione. L’approdo a un’altra lingua non è mai indolore.
A Nadotti è traduttrice e consulente editoriale