La piena libertà di non essere alla moda
recensione di Matteo Pollone
dal numero di luglio/agosto 2017
David Lynch
TWIN PEAKS 3
con Kyle MacLachlan, David Lynch, Laura Dern
Usa 2017
In un periodo in cui la nostalgia è diventata un cospicuo business, in cui i cofanetti in blu-ray o la programmazione di Netflix permettono un recupero immediato di produzioni lontane decenni, il mondo delle serie tv, a causa della mole di materiale prodotto e dell’ampiezza del discorso che genera attorno a sé, è certamente sottoposto a un invecchiamento molto rapido. Chiunque abbia deciso di intraprendere la visione di una serie conclusa da qualche anno e persa nel momento della messa in onda, sa bene quanto sia complesso costruirsi un palinsesto che consenta di far convivere il recupero di un vecchio show con la visione, in contemporanea, dei nuovi episodi delle serie del cuore o di quelle al centro della discussione dei social o di ogni occasione conviviale durante la quale, da qualche anno, chi non guarda questo tipo di prodotti è irrimediabilmente tagliato fuori. Non che questo sia un fenomeno così strettamente contemporaneo, come alcuni commentatori vogliono farci credere: chi ricorda Harry e Tonto, piccolo capolavoro dolente di Paul Mazursky (1974), non avrà dimenticato la sequenza iniziale durante la quale, all’anziano pensionato interpretato da Art Carney, tutti gli abitanti del quartiere che incontra non fanno che parlare della puntata di Ironside andata in onda la sera precedente. La differenza non sta tanto nell’intrusività della televisione nelle nostre vite, dunque, ma nella predisposizione, questa sì tutta contemporanea, al binge-watching, all’aumento consapevole del tempo che dedichiamo ai prodotti seriali spesso fruiti nel corso di lunghe maratone che in pochi giorni esauriscono un’intera serie, magari ignorata nel corso dell’anno e recuperata durante i mesi estivi o nel corso delle vacanze, delle sere libere, delle notti insonni o delle domeniche di pioggia o senza campionato.
Una portata rivoluzionaria
Data quindi una disponibilità di tempo limitata (per quanto più ampia rispetto al passato), moltitudini di prodotti seriali che si sono guadagnati, negli anni, lo statuto di cult television e la qualità media delle numerose produzioni distribuite ogni anno (e ignoriamo, o fingiamo di farlo, la facilità e la gratuità con cui si accede spesso a questo tipo di opere) è sempre più difficile che show del passato arrivino alle nuove generazioni. La cernita deve essere fatta con attenzione: Lost o 24, ad esempio, sono troppo lunghe: in pochi hanno il coraggio di affrontare la monumentalità di queste narrazioni-fiume; The Wire, forse la serie più importante e innovativa mai prodotta, è considerata, oggi come allora, troppo di nicchia e richiede forse uno sforzo eccessivo rispetto ai canoni dello storytelling più recente: nonostante una durata complessiva più contenuta, anch’essa rimane un’incognita per larga parte degli appassionati di oggi; Buffy, una delle punte dell’innovazione televisiva degli anni novanta, non è mai riuscita a lavarsi via le stimmate di un prodotto per un target specifico (quello di un pubblico adolescenziale) e nonostante il suo creatore sia oggi uno degli architetti del Marvel Cinematic Universe, difficilmente l’aura di culto che ancora la serie emana porta gli spettatori più giovani, che nel 1997 ancora erano troppo piccoli, a sobbarcarsi una mole di puntate come quella della serie trasmessa dalla Wb.
L’elenco potrebbe essere ancora lungo, ma certamente mai vi si troverebbe un’opera invece costantemente recuperata, discussa, rivista, ben presente al pubblico di tutto il mondo e di tutte le età: Twin Peaks. Nella storia della serialità televisiva, Twin Peaks, ideata da Mark Frost e David Lynch e programmata tra il 1990 e il 1991 per soli 30 episodi, ha un’importanza fondamentale. Al di là di tutte le considerazioni minuziose che si possono fare sull’operazione, un pastiche postmoderno che porta avanti di decenni ciò che in tv era fino a quel momento possibile fare, la storia delle indagini dell’agente speciale dell’Fbi Dale Cooper attorno alla morte di Laura Palmer è nodale in quanto rivoluziona la televisione dall’interno: Twin Peaks non rappresenta, come si è soliti credere, l’arrivo del cinema nella dimensione meno incline alla sperimentazione formale dello show televisivo. Per quanto si ami ripeterlo, la “quality television” non è cinema serializzato. In questo errore, in cui sono caduti in molti, si è poi perseverato quando si è voluto leggere il motto di Hbo “It’s not Tv, it’s Hbo” come una frase che dichiara esplicitamente l’appartenenza a un altro medium, appunto quello cinematografico. Ma “It’s not Tv, it’s Hbo” non vuol dire “It’s not Tv, it’s cinema”, ma più semplicemente che Hbo, dal 1997, ha cercato, riuscendoci, di ridefinire il concetto di televisione (quasi esclusivamente in campo seriale, ma non solo) proprio a partire dalla consapevolezza acquisita grazie a sfide come quella di Lynch e Frost o, prima ancora, a quella di Steven Bochco e Michael Kozoll con il loro Hill Street Blues.
Prodotto volutamente sterile
Oggi che, dopo 25 anni, Twin Peaks è tornato, la nuova frontiera del racconto seriale, rappresentata dalle produzioni Netflix, passa attraverso piattaforme di streaming che rendono disponibili al pubblico stagioni intere alla volta, snaturando la dimensione dell’attesa che, nel caso di Twin Peaks, era rappresentata dalla difficoltà nell’individuare l’omicida: una rivelazione che, come sappiamo, l’Abc costrinse Frost e Lynch ad anticipare per non irritare gli spettatori che, una volta avuta la risposta all’enigma, incominciarono ad abbandonare la serie decretandone così in breve tempo la fine. Nell’America di inizio anni novanta, Twin Peaks ha rappresentato una novità e una sfida alle convenzioni televisive. In quella di venticinque anni dopo, la terza stagione, in onda da qualche settimana su Showtime, si pone invece volutamente come un prodotto sterile, iper-autorializzato, autoreferenziale, figlio di un panorama mediale profondamente mutato, che tollera le eccedenze, le eccentricità, le sperimentazioni. Ma se il Twin Peaks 1990-1991 era (e per molti versi è ancora) molto avanti rispetto ai suoi tempi, quello 2017 è una perfetta operazione post-mediale, sgorgata da un contesto liquido, privo di confini definiti a cui manca la volontà di giocare con i codici e le trite convenzioni televisive, che nel 1990 rappresentavano effettivamente una gabbia dalla quale era difficile sfuggire, laddove oggi, in un momento in cui la serialità sembra aver battuto tutte le strade possibili, i produttori e gli autori, dopo l’euforia creativa degli anni novanta e degli anni zero, sembrano procedere più cautamente, addossandosi meno rischi.
Probabilmente ci si deve rassegnare, ma appare ovvio che difficilmente esisterà ancora un kolossal per molti versi sbagliato ma affascinante come Lost, o un’opera-mondo come The Wire. In un momento in cui il grande nome, sia esso lo Scorsese di Boardwalk Empire e Vinyl o il Gus Van Sant di Boss, è ridotto alla stregua di un brand, di una firma da apporre a un prodotto altrui, Lynch ci ricorda che è solo rivendicando in pieno la libertà dell’autore che possiamo, oggi, liberarci dalla dittatura dello storytelling e delle indagini di mercato. In un momento in cui i prodotti più interessanti del panorama televisivo sono costantemente ripiegati verso il passato (Westworld, da un film di Crichton del 1973, House of Cards, da una serie Bbc del 1990, Fargo, dal film dei Coen del 1996, Stranger Things, rielaborazione dell’immaginario spielberghiano e kinghiano degli anni ottanta, etc.), Lynch regala al suo pubblico un’opera che non ha il sapore di una rimpatriata, ma è anzi completamente priva di nostalgia e di concessioni a ciò che egli stesso era, come sceneggiatore e regista, venticinque anni fa. La ricerca di Lynch è andata avanti soprattutto in direzione puramente estetica (molti critici, a proposito di questa terza stagione di Twin Peaks, parlano, non a torto, di “videoarte”), verso film e video che sempre meno concedono spazio a una narrazione canonica. Che piaccia o no, questo nuovo Twin Peaks – probabilmente l’ultima regia dell’autore – viene, anche concettualmente, dopo la sperimentazione radicale di Inland Empire e tenta di riallacciarsi, con più di un rimando, a Eraserhead, l’opera d’esordio. Come in molti suoi film, Lynch sembra voler apparentemente chiudere un cerchio (o un nastro di Möebius), con la differenza che Showtime gli consente di farlo con tutta la sua opera. È naturale, dunque, che deluda i nostalgici della serie originale o chi si avvicina, ignaro, senza aver fatto esperienza delle varie tappe della filmografia di Lynch. Ma certamente, anche senza voler leggere Twin Peaks 3 in chiave puramente autorialistica, esso rappresenta un bell’antidoto alla serialità “da manuale”, che raccoglie facili entusiasmi e funziona benissimo all’interno dei corsi di scrittura creativa. L’afasia dell’universo lynchano è davvero altra cosa rispetto alla loquacità un po’ masturbatoria dei personaggi di Aaron Sorkin o a Matthew McConaughey in True Detective. Lynch ci sfida, ci spiazza costantemente, non asseconda mai le nostre aspettative. Ci prende anche in giro, certamente. Ma si appropria di uno spazio che recentemente nessuno aveva più osato occupare, in televisione, con la libertà di tentare qualcosa di nuovo senza voler tracciare una strada, senza voler essere d’esempio. Twin Peaks 3, in altre parole, sembra essere meno “epocale” delle due stagioni precedenti, ma si presenta come una tappa fondamentale di una ricerca tra le più innovative e originali degli ultimi quarant’anni. Questo perché a settant’anni Lynch può finalmente assaporare a pieno la libertà di non essere più di moda.
matteo.pollone@unito.it
M Pollone insegna storia delle teorie del cinema all’Università di Genova