Quel delirio che mi piace
di Camilla Valletti
Paolo Morelli pubblicò nel 2003 un piccolo libro, Vademecum per perdersi in montagna, che andava contro una certa maniera di concepire l’alpinismo come sfida. Il suo dizionario, dissacrante in termini flaubertiani, è un vero vademecum portatile per chi cerchi nel vagabondare in alta quota qualche cosa che vada oltre la fatica.
Morelli disegna un antimanuale per alpinisti che cercano di far “arieggiare la mente” corteggiando “un linguaggio rumorosamente silenzioso” piuttosto che rifarsi alle epopee del pensiero illuministico romantico dei Saussure, dei Daumal, dei Renard, pionieri del delirio verticalista. Morelli liquida tutto questo portato ambiguamente eroico sostenendo di trovarci “un senso di sfida, controverso, logorroico e segretamente omosessuale”.
Il lettore troverà allora rovesciamenti inediti e spunti sempre divertenti. Abbiamo rivolto alcune domande al suo autore in occasione della sua più che opportuna ristampa.
Lei ha una voce del tutto atipica e in contrasto con la retorica, oggi imperante, dell’alpinismo alla Bonatti. Quali sono i suoi riferimenti letterari, a parte i narratori delle pianure?
Cosa pensa del revival della stagione eroica dell’alpinismo con tutti i suoi cascami culturali e comportamentali?
Non trova che sarebbe necessario un antidoto al diffuso machismo alla Mauro Corona? Perché l’ironia sta sempre fuori dall’ambito alpinistico? E un libro come Alpinisti ciabattoni di Cagna non sarebbe da ristampare?
Cagna è proprio quel delirio che mi piace. Non mi piace per niente invece come delirio quello che ho sentito dire a Corona sere fa in tv: Io sono come Robert Walser, ha detto! Ma è chiaro che il problema non è rappresentato dallo stato mentale di certi personaggi, o pupazzi, ma da chi li ha scelti e continua a sceglierli, lì possiamo tornare nel razionale. A me il disegno pare chiaro: rendere la letteratura inefficace, al massimo un must, qualcosa per mettersi dalla parte giusta della società, quella che decide o crede di decidere. Come clienti beninteso. Per la stessa ragione bisogna imporre il diktat di una forzata drammatizzazione del reale, una pensosità patacca, ed evitare come la morte qualsiasi spunto di comicità vera, vale a dire quella che mantiene in sé tutto il tragico, perché la comicità sola può immaginare una via di fuga o di uscita, e lo fa col corpo. E chiaramente il discorso non vale solo per la letteratura di montagna.