Panoramica per frammenti della XXX edizione
di Miriam Begliuomini
“Le frontiere? Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte, e stanno tutte nella mente degli uomini” usava dire l’antropologo norvegese Thor Heyerdahl.
L’Oltre il confine che dava il nome al Salone del Libro di quest’anno suonava come poetico e al tempo stesso urgente invito. Andare oltre in tempi in cui i muri tornano a essere all’ordine del giorno. Provare a “smagliare” le reti, a crivellarle se necessario, allargando gli spazi – anche di ospitalità – mentali. Partendo dagli elementi residuali, minimi, come il buco nell’Hot Spot di Lampedusa di cui parla Davide Enia in Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017): “Meno male che c’è ‘sto buco. È una porta, un modo per non farli sentire animali in gabbia. (…) Il Centro è una struttura presidiata dalle forze di polizia dentro la quale non si può accedere senza autorizzazioni speciali. Manco il prete può entrarci. (…). Però nella rete esiste da sempre un buco. È un fatto risaputo, tutti lo sanno e non si interviene. E per fortuna che non si interviene” (p.20).
Muri, fili spinati, frontiere, sono fra le parole più spesso riecheggiate fra i padiglioni del Lingotto: frontiere doganali, che dividono più o meno arbitrariamente uno stato dall’altro; frontiere mobili delle rotte di migrazione; frontiere invisibili e solide di un’Europa sempre più schizofrenica, fra spinte centrifughe e spasmodico raggomitolamento.
Ieri e oggi
Ancora prima dei confini nello spazio, sono i confini nel tempo a insegnare la lezione della permeabilità, tanto nella vita individuale quanto collettiva. Giorgio Agamben, parlando del ricordo, dice che in questo “trasformiamo in compiuto l’incompiuto e viceversa. Il ricordo è qualcosa di essenziale e attivo, nel quale rendiamo nuovamente possibile il passato. È tutto il contrario dell’archivio; come diceva Benjamin, bisogna ridare una possibilità al passato”. La necessità di un’intersezione temporale incontra la riflessione di Massimo Cacciari sulla necessità del classico, letta in relazione alla democrazia antica e odierna: “Ci sono due modi per essere moderni. Moderno viene da modus, che significa ora. Il primo modo di essere moderno è quello che guarda all’ora in maniera transeunte e di passaggio. C’è un essere moderni secondo il logos che è invece essere classici: comprendere il presente abbracciandolo attraverso qualcosa che moderno non è. I classici non sono quelli che costituiscono un fondamento dato per sempre ma quello che tormenta, che mette in dubbio ancora oggi, che informa nel senso che dà forma ai problemi. Che va letto, studiato, capito, per poi essere rigenerato”.
Qui e altrove
Cosa ci disegna come cittadini e come esseri umani? Quali i diritti che ci spettano in un caso e nell’altro? Mauro Covacich, parlando de La città interiore, richiama l’estraneità con cui, in quanto triestino, ha fatto i conti fin da bambino. “Da me, chi guarda indietro nel tempo, si scopre sempre qualcos’altro: greco, slavo, eccetera. Per me Trieste è sempre stata un po’ come Il castello di Kafka. Un posto in cui posso vivere, perché ho i documenti per farlo, ma in cui non so bene cosa devo fare e in cui mi si parla in una lingua che non capisco. Com’è che sono quello che sono? La famiglia, il luogo di nascita, i libri, i viaggi, le esperienze mi hanno formato come persona molto più di un pezzo di carta”.
Sradicamento analogo si ritrova in un altro triestino vagabondo, Paolo Rumiz, che partendo dalla micropatria cittadina arriva alla grande “mamma vituperata” che è l’Europa: “Mi trovo un po’ male in quella che si chiama nazione e che forse per molti altri italiani presuppone un’adesione molto più semplice, chiara, monolitica. Se dovessi definire chi sono, direi che sono italiano di lingua, tedesco di cultura, slavo per gli istinti basici, francese per cultura di viaggio, greco per appartenenza al mare e inglese come avido lettore di testi storici. Per tutta la vita ho lottato contro la frontiera; eppure, quando nel 2007 la frontiera fra Italia e Slovenia è stata abbattuta, ho sentito come una nostalgia, il desiderio di vedere un’ultima volta cosa fosse, perché quella frontiera, col suo gusto di limite e d’evasione, serviva anche a definirmi. Allora mi chiedo, oggi: come fa l’Europa, se non sente di avere una pelle, un limes? Manca una grande mitologia europea, una narrazione dei suoi luoghi, un alfabeto per esprimerla”.
Se Bernard Guetta con Intima convinzione. Come sono diventato europeo (add editore, 2017) traccia la parabola di una crescita individuale e comunitaria, c’è chi, come Maurizio Molinari nel suo Il ritorno delle tribù (Rizzoli, 2017), fa suonare l’allarme sui movimenti antistatalisti europei e mediorientali, leggendo sottotraccia spinte egemoniche di tipo localistico.
Ma è la stessa difficoltà a individuare la nozione di limite a rendere difficile circoscrivere l’Europa. Come ricorda Marco Aime, il confine non è mai naturale, è sempre culturale: esiste un fiume, un monte, ma è soltanto un atto di riconoscimento condiviso a definirlo come confine. Spesso ciò risponde alle necessità dello stato moderno: laddove il nomadismo antico ci parla di un’umanità migrante in cerca di condizioni di vita migliori o semplicemente possibili, la geografia e la cartografia moderne segmentano il mondo in pezzetti calcolabili e controllabili dallo stato-nazione. “Un’idea, quella di confine, finisce così per diventare reale. Il concetto è stato talmente interiorizzato che finiamo per percepire come naturale – e da qui anche la parola naturalizzare – la nostra nazionalità. I diritti stessi, in barba alla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo, vengono riconosciuti come legati a uno stato e alla sua capacità di farli rispettare. Bisognerebbe poi distinguere il confine, che è una linea netta che divide e crea l’alterità, dalla frontiera, che è uno spazio di negoziazione tra il già e il non ancora”.
In quella distanza fra qui e non ancora si pone il reading di Alessandro Baricco sul grande romanzo della migrazione Furore di Steinbeck, così come il progetto fotografico edito e raccontato da Giulio Piscitelli in Harraga. In viaggio bruciando le frontiere (Premio Ponchielli 2016).
Cultura e potere
Gianrico Carofiglio e Tomaso Montanari tracciano la sottile linea rossa fra potere politico e intellettuale, fra rispetto delle regole e disubbidienza civile. Il “potere di dire no” emerge nell’opera 1000 ways to say no di Bahia Shehab, presentato nell’incontro in memoria di Giulio Regeni e della sua ricerca sui sindacati indipendenti nell’Egitto di Morsi. La riflessione più amara è quella di Domenico Quirico, disilluso sulle possibilità che la “classe intellettuale” possa arrivare a intaccare la sfera del vivere civile e politico. “Io sono un negatore di confini. Attraverso le frontiere laddove non esistono più, in Somalia, Nigeria, Siria: laddove il confine non c’è, dov’è stato decomposto. Mi interessa quello che resta: restano i migranti, migratori viventi di luoghi in cui i confini sono un concetto sconosciuto. Per me il confine è la dimensione amministrativa della nostra decadenza: pensiamo che i confini siano importanti per definirci, per definire l’Occidente. Ho molti amici Tuareg: vivono nel deserto e non conoscono frontiere, non sanno cosa siano. Ma che mondo è questo in cui non posso andare in posti in cui vent’anni fa andavo in vacanza? Che mondo è questo in cui ho paura di un uomo che arriva su una caravella fradicia e lo respingo?”.
Fra letteratura e tecnologia
Tutti i limiti sono difficili da individuare, ma ce n’è uno sottilissimo che corre lungo una linea d’equilibrio instabile: quello dei “matti, che sono dei capolavori inutili”, raccontati da Paolo Nori nelle sue letture Repertori dei matti delle città.
E poi ancora l’importante questione della lingua, che si dipana come un fil rouge per tutto il Salone, in particolare con “il caso Elena Ferrante” e la sua traduzione a livello mondiale. La riflessione linguistica si muove lungo due assi: da un lato quello dell’innovazione tecnologica, con gli esperimenti di lettura condivisa di Betwyll e della Tweetteratura; dall’altro con la riflessione critica di chi, come Giorgio Agamben e Giorgio Ficara, vede nella lingua balbettata e residuale della poesia l’ultimo baluardo di un’espressione autentica.
Passavamo sulla terra leggeri
Ci si allontana dal Salone con qualche pagina in più nelle borse, voci note o nuove impigliate in testa, sottopelle qualche scheggia di confine saltato. Con l’idea che, forse, le frontiere possano un po’ abbassarsi nella traduzione, nella costruzione di quella Weltliteratur, la letteratura mondiale, di cui parlava già Goethe a inizio Ottocento. Di fronte a chi mette in guardia sul fallimento del potere del raccontare, giornalistico o narrativo che sia, si può cercare non consolazione ma almeno speranza in uno scrittore di ieri, che come cifra della propria opera preferiva quella della leggerezza ma che sapeva toccare tutte le corde dell’espressione: “L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo” (Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore).
miriam.begliuomini@unito.it
M Begliuomini è dottoranda in Letteratura Francese all’Università di Torino