L’anima del condannato tra patibolo e bisogno di riconciliazione
di Massimo Vallerani
dal numero di dicembre 2013
Delitto e perdono inizia con una riflessione profonda sul rapporto fra il cristianesimo e la morte “data”, intesa come una vita tolta con la violenza. Per una religione nata su una condanna ingiusta e una morte vinta dalla resurrezione, il problema di dare la morte costituisce un paradosso di difficile soluzione, soprattutto quando la chiesa diventa di stato e riconosce il diritto dello stato di uccidere. Come avviene questa assunzione della morte nel cristianesimo?
Bisogna tener conto di un dato antropologico, quel carattere per così dire egizio del cristianesimo dell’epoca (come notò Erwin Panofsky): una religione dei vivi al servizio dei morti. Questa è come la base dell’edificio, qui sono le fondamenta della costruzione. L’antropologia storica del lungo medioevo ci ha messo davanti a esseri umani dal corpo denutrito e dall’organismo debilitato, dalla vita breve, su cui incombe la minaccia di carestie e di epidemie. Non per niente le date dell’avvio diffuso di confraternite dedite alla sepoltura dei condannati ruotano intorno agli anni della Peste Nera. La morte nella cultura “egizia” del cristianesimo medievale è l’ingresso nell’altra e vera vita, nel mondo divino, dove il defunto deve affrontare il giudizio supremo. Perciò una buona morte è tale se preceduta dalla confessione e dal testamento: saldare i debiti, restituire il maltolto e ottenere il perdono dei peccati, una resa dei conti finale con la comunità e con Dio.
Al cristiano morto spetterà il rito della sepoltura in terra benedetta, meglio ancora se in chiesa. Da tutto questo è escluso chi muore durante o dopo un delitto (che è anche e soprattutto un peccato): furti, assassinii, ma anche eresie rompono il vincolo con la comunità ecclesiale. E qui scatta il ruolo speciale del potere ecclesiastico, il quale ha stretto un vincolo speciale con quello politico fin dal famoso versetto del capitolo 13 dell’epistola di San Paolo ai Romani. Col riconoscimento al potere di una legittimazione divina, la religione paolina ebbe la meglio su quella del Gesù evangelico e garantì al cristianesimo storico il favore di un Impero minacciato e indebolito. La condanna a morte dell’eretico fu la sigla del patto di potere col clero di una religione diventata quella esclusiva dell’Impero romano e in grado di offrire coi suoi vescovi un’élite autorevole di governo. Di suo la Chiesa porterà la rivendicazione di una giurisdizione esclusiva sull’anima e sul suo destino nell’aldilà: quella del condannato ma anche e prima ancora quella dei fedeli, che impareranno dalla morte dell’eretico e del delinquente a osservare le regole e a obbedire: una divisione di compiti e di giurisdizioni che aveva in sé un conflitto latente. E intanto si fissava in profondità nel concetto cristiano della giustizia quella indistinzione tra delitto e peccato che doveva durare fino a Beccaria.
Un’altra linea di contraddizione interna al cristianesimo emerge al momento di elaborare una ritualità di ricomposizione prima della morte, e riguarda il perdono, tema da anni al centro delle sue ricerche. La spinta a confortare il condannato serve a assicurare la salvezza dell’anima, mostrare un pentimento del reo che legittimi la condanna, garantire una sepoltura non ignominiosa del suo corpo. Rimane tuttavia un interrogativo: perché tanto sforzo per uccidere un reo “cristiano”, abbandonando, almeno in parte, quel processo di disumanizzazione del condannato così vivo in altre culture?
Vi concorrono numerosi fattori: paura della morte e dell’aldilà da parte del condannato, che chiede tutele religiose ai viventi, paura speciale dei morti anzitempo da parte dei vivi. Nel sangue della vittima si compie la saldatura del corpo sociale all’interno di un ordine che è insieme divino e secolare. Qui, semplificando, si può dire che si aprono due percorsi. Quello prevalente nell’Europa cristiana è l’uso politico del rito patibolare e dello strazio del corpo per trasmettere un messaggio di unità nell’obbedienza al potere di un sovrano voluto e guidato da Dio. La sentenza di morte ha la maestà di un decreto divino. E se per caso la sentenza fosse ingiusta, si può sempre contare sull’intervento della Madonna o di un santo per salvare l’impiccato, come hanno raccontato Bernard de Gaiffier e Roger Chartier. L’altro percorso si ha quando si reagisce alla disumanizzazione estrema del condannato – l’espulsione dalla città, il corpo torturato, ridotto a carogna animalesca, il fantasma vendicativo dell’impiccato che si aggira sulla terra nell’incubo della “cavalcata selvaggia” – con la ricerca di una riconciliazione. E la riconciliazione avviene trasformando il delinquente in un cristiano pentito e redento, pronto ad accettare la morte come passaggio alla vita eterna del cielo: una figura pacificata e protettiva. I membri delle confraternite di giustizia associandosi al corteo del patibolo e seppellendo con riti religiosi il cadavere del condannato pentito conquistano per sé il merito di aver salvato un’anima e in ogni caso proteggono la comunità esorcizzando la maledizione del morto. Come nelle culture primitive studiate da Robert Hertz, il percorso dalla sentenza alla sepoltura è un rito di passaggio che tende a trasformare il morto ostile in spirito benevolo e protettore.
E il secondo modello dove e perché si sviluppa?
È nelle città italiane del centro-nord della penisola che ha origine in forme spontanee e diffuse il movimento devoto di confraternite dedite a un’“opera di misericordia” non prevista nel canone evangelico, quella dell’associarsi alle esecuzioni capitali per confortare il morituro e seppellirne il corpo in terra benedetta. Non si potrebbe capire la realtà del rito del conforto senza tener conto delle sue origini tutte italiane e del contesto della città comunale: qui un rapido, rivoluzionario processo di crescita civile e commerciale avviene in un vuoto di potere. Lontano o inefficace quello imperiale, è il vescovo che diventa l’autorità legittimante, mentre cresce un laicato indocile, che oppone le beatitudini evangeliche a un clero ricco e dimentico dei suoi doveri. E in questo contesto emergono i gesti eccezionali di grandi figure, le testimonianze fondative della fraternità: il bacio al lebbroso di san Francesco, le nozze mistiche sul patibolo di Santa Caterina e Niccolò Toldo, la crociata dei malfattori di Venturino da Bergamo. Poi, a partire dal Quattrocento, saranno le fragili dinastie signorili e il papato a trasformare le associazioni caritatevoli in corpi specializzati nell’organizzazione dello spettacolo pubblico del patibolo come luogo dove il condannato sarà invitato a recitare la parte del martire che si avvia al Paradiso.
Una lunga parte del libro è in effetti dedicata alle confraternite, che dal Quattrocento in avanti si specializzarono nell’assistenza ai condannati; le confraternite, tuttavia, sono formate da laici, per altro di livello sociale elevato. Come ha reagito la chiesa allo sviluppo di una pratica rituale in parte esterna ai suoi funzionamenti ordinari?
Ne ha colto rapidamente l’offerta decisiva, quella della possibilità di trasformare la manifestazione più violenta e drammatica del potere temporale in una esaltazione del potere spirituale. Fu una sfida in cui si confrontarono corpo ecclesiastico e regalità laica: esemplare in tal senso il conflitto sulla confessione dei condannati che scoppiò tra il papato e i giudici francesi nel corso del Trecento e fu seguito da un lungo strascico di tensioni tra papato e monarchie nazionali fino al Settecento. Ma c’è anche un aspetto che riguarda più direttamente l’esercizio della duplice sovranità del papato sui corpi e sulle anime. A partire dal momento in cui vengono introdotte confessione privata e inquisizione antiereticale, l’autorità ecclesiastica persegue sistematicamente la trasformazione del peccatore-delinquente (o eretico) in cristiano pentito e pronto a confessare tutto quello che gli viene chiesto. Non fu per caso se il tribunale dell’inquisizione ecclesiastica sperimentò per primo l’importanza della conversione dell’eretico prima di mandarlo a morte e introdusse la pratica dei visitatori-persuasori nel carcere, come mostra il manuale di Nicolau Eymerich.
Il pentimento del reo prima della sentenza, cercato con forza sia dalla giustizia ecclesiastica che da quella laica, mette in luce il nesso fra il perdono e il dominio dei poteri politici sull’anima del condannato. Anche in questo caso si tratta di un fine apparentemente poco rilevante, eppure proprio la confessione del condannato serve moltissimo al potere come legittimazione dei suoi strumenti di indagine. Che rapporto intercorre fra la verità del reo e la verità del potere?
Nel cupo contesto delle sale di tortura, delle “notti malinconiche” del conforto e nel percorso pubblico del condannato tra gli incappucciati verso la forca o la mannaia, si combatte una battaglia mortale intorno alla verità. Una verità dai molti volti. C’è la verità dei delitti e quella dei peccati che si sovrappongono, mescolando reati pubblici e pensieri segreti. Capolavoro supremo della macchina del potere è l’invenzione terrificante del delitto di lesa maestà, quella divina (l’eresia) e quella umana (la ribellione al potere): un reato che può essere anche compiuto solo col pensiero ma che comporta una pena durissima e senza appello. Si pensi alla scomunica latae sententiae e alle sue conseguenze sociali. In ogni caso, la verità estorta al reo con la tortura giudiziaria è il frutto di una violenza capace di far dire a chiunque quello che vuole. Il processato confessa non solo il delitto di cui è imputato ma tanti altri delitti e complici inventati e buttati lì per far cessare la tortura. Lo si sapeva bene e per questo si fissarono altre tappe: così il momento della verità arriverà solo davanti al patibolo, una volta sfumate tutte le speranze di aver salva la vita. Qui le vie si divaricano. Dove non è consentita la confessione sacramentale segreta ci sarà quella pubblica davanti al patibolo o dall’alto di esso, un rito che in Francia si chiamò l’amende honorable e in Inghilterra il last speech. Dove è consentita e praticata la concessione dei sacramenti e in particolare della confessione, sarà l’orecchio del confessore a raccogliere le dichiarazioni del condannato (che nella Francia del Seicento dovrà riferire ai giudici del re). Ma anche la confessione auricolare fa parte del braccio di ferro che ha per posta la vita di un essere umano: il quale gradua spesso la confessione in modo da apparire come un innocente e da spingere il confortatore a impetrare una revisione della sentenza. E può accadere che solo all’ultimo istante, mentre gli mettono il cappio al collo, il condannato bisbigli al confessore di avergli mentito fino ad allora. Nella pratica delle compagnie di giustizia si sviluppa qui una invenzione speciale: grazie allo statuto della confessione sacramentale dove non basta il pentimento ma si richiede anche il risarcimento del male fatto per ottenere l’assoluzione, si raccolgono gli “scarichi di coscienza”, cioè le dichiarazioni con cui il condannato fa ammenda delle falsità dette in processo. Chi è stato incarcerato per quelle accuse potrà così tentare di essere liberato. Ma è il contesto dove si dicono e si inventano le “verità” che si deve cercare di immaginare: un contesto dove si intrecciano religione e magia, devozione e folklore, ricerca della salvezza eterna e cura della salute del corpo. Si pensi alla pratica degli spettatori che corrono a bere bicchieri di sangue caldo del decapitato per curare l’epilessia; o all’ultima apparizione del corpo del condannato, con l’anatomia pubblica, spettacolo di grande richiamo fissato appositamente in tempo di carnevale.
Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana XIV-XVIII secolo di Adriano Prosperi recensito da Vincenzo Lavenia sul numero di dicembre 2013.