Far finta di non essere prigionieri
recensione di Nicola Villa
dal numero di maggio 2017
Giulia Caminito
LA GRANDE A
pp. 288, € 14
Giunti, Firenze 2016
È uno degli esordi più convincenti degli ultimi tempi, che si distingue per una scrittura originale, tra il metaforico e il familiare: se esiste una lingua personale, intima ed evocativa allo stesso tempo, Giulia Caminito ha saputo metterla in questo suo primo romanzo. Dalla provinciale Lombardia, Legnano, alla grande Africa del titolo, quella del Corno d’Africa, Caminito racconta una storia liberamente ispirata alla sua biografia di famiglia, rievocando le vicende del colonialismo italiano. Se si escludono poche opere, tra cui Tempo di uccidere di Ennio Flaiano e il ciclo dei Confini dell’ombra del dimenticato Alessandro Spina (scomparso soltanto pochi anni fa nel 2013), la narrativa coloniale è poco letta e considerata un genere minore, come a non voler ricordare le imbarazzanti fortune e sfortune degli “italiani d’Africa”.
La A del titolo non è solo l’“Africa”, ma è anche l’iniziale di Adi, una donna in anticipo sui tempi: avventuriera, commerciante di ghiaccio e alcolici, che ha aperto un bar nel porto di Assab, una piccola città dell’Eritrea, e fa affari girando con un camion. Una donna libera.
A raccontare la sua storia e a idealizzarla è Giada, la figlia, considerata da tutti sempre troppo piccola e malata per la sua età, e perciò prima lasciata in Italia dai parenti, anche durante la guerra, e poi fatta trasferire adolescente in Africa, come un pacco.
Un’esistenza in balia degli eventi
Da una madre forte e autonoma, una figlia debole, che si lascia trasportare dagli eventi, ma che paradossalmente diventa una testimone perfetta e vigile di quel mondo totalmente diverso, per raccontare il campionario di avventurieri e millantatori che sono gli italiani d’Africa, dotata proprio di quella sensibilità superiore e grazia per interagire con il vero altro, che sono gli africani autoctoni (“i neri catramini” nel linguaggio dei coloni bambini), e per intuire il mistero di una natura radicalmente nuova, pericolosa e intrigante allo stesso tempo. Ecco allora Hamed, il garzone del bar a cui dare ripetizioni di lingua; o ancora Orlando, l’euforico compagno della madre ancora impregnato di retorica fascista; oppure Checco, una antilope dagli occhi profondi trattato e curato come un animale domestico. Giada cresce e crescendo si fa bella, tanto da ricevere le attenzioni del più attraente tra i giovani coloni, Giacomo Colgada, affascinante come un attore del cinema e rampollo di una ricca famiglia di Asmara. Dopo il matrimonio, imposto da Adi e dai suoi calcoli, sembra finalmente intravedersi un po’ di felicità e libertà, tra safari nel deserto e balli al Circolo Juventus di Addis Abeba dove si ritrova la borghesia coloniale, senza dimenticare la nascita di un figlio, Massi, frutto di questo amore così veloce e travolgente. Ma l’amore è solo un’illusione e Giada deve subire l’umiliazione della separazione, causata dell’irrequietezza del marito, sempre alla ricerca di avventura, rimanendo sola e subendo il confronto con la madre e gli “assalti” della suocera e della cognata al patrimonio di famiglia.
“Nessuno è libero, ma tutti fan finta di non essere prigionieri” ammonisce con durezza Adi alla figlia Giada e questa sembra essere la morale per l’accettazione di un’esistenza in balia degli eventi, della storia e delle decisioni degli altri. Soprattutto di una madre così autoritaria e decisionista, la grande Adi. Incapace di scegliere e di non subire le decisioni altrui, Giada vive la solitudine come una parentesi, una monotonia “rinfrescata” solo da un amante greco, Stachys. Il ritorno del marito Giacomo coincide con la fine degli anni cinquanta e del colonialismo, la “sinfonia della rivoluzione” che fa cadere il Negus e l’inizio della guerra generalizzata di tutti contro tutti. La fine di quell’Africa italiana e il ritorno inevitabile in patria su decisione, come sempre, della madre.
La Grande A può essere letto come scoperta di una vicenda del Novecento italiano che abbiamo troppo rapidamente rimosso a causa della cattiva fede, delle responsabilità politiche, dello sfruttamento coloniale e dei crimini commessi nel continente africano. Alla descrizione della comunità di coloni in Africa e dei suoi molti tipi di avventurieri e irrequieti, intrallazzatori alla giornata e ricchi possidenti, si affianca quella di un mondo nuovo, un ambiente lontano raccontato senza retorica e senza esotismo, e proprio per questo vivo e autentico, specchio dello stato d’animo, delle felicità e delle sofferenze, della sua narratrice. La cosa che più colpisce però di questo romanzo è la singolarità della scrittura di Giulia Caminito che molto giovane (è nata a Roma nel 1988) ha saputo trovare un suo stile maturo e autentico. Una forma sovraccarica di metafore, di similitudini, di allusioni (e anche di neologismi che si potrebbero chiamare “affettivi”) che non stanca e non è mai artificiosa. Semmai la scrittura di Caminito dà l’impressione, a volte, di essere quasi circolare e compiaciuta di sé, ma questo è il perdonabile difetto di chi sa cosa vuole raccontare e come farlo.
villanicola@gmail.com
N Villa è saggista e critico letterario